“” La “comunità nazionale” nell’estate del 1914 era ancora
qualcosa che ben difficilmente poteva essere identificato, in questo senso più
profondo, con gli abitanti dello Stato: e altrettanto può essere detto se
poniamo mente all’esiguità dell’ “opinione pubblica”. L’estraneità era non solo
delle masse verso lo Stato, ma anche dello Stato verso le masse; tanto maggiore
era quindi per le classi dominanti il bisogno, in una situazione “anomala” come
la guerra, di far scattare tutti i possibili strumenti di compressione. (…)
Sovrano, governo, Parlamento, esercito apparvero, nei difficili mesi tra
neutralità e guerra, se non veri e propri compartimenti stagni, sezioni
separate nell’organizzazione del potere, istituzioni fra le quali circolarità e
scambio di opinioni e di esperienze, dibattito politico, solidarietà e
collaborazione erano inesistenti. La situazione eccezionale, il modo stesso
dell’entrata in guerra poterono solo accentuare ed esasperare questi caratteri,
smantellando ciò che l’uso e la prassi avevano introdotto come correttivi,
dando ad essi una corposità e un’evidenza che prima non avevano. Vi è intanto
da constatare che chi “guida” l’intervento non è nessuno dei poteri costituiti
come tale, e dunque parlare di spinte reazionarie verso un “ritorno allo
Statuto”, nel senso in cui l’espressione era stata assunta nel 1898, è
altrettanto arbitrario quanto l’insistere su una “gestione extra- o
antiparlamentare” della crisi stessa. Se il Parlamento viene rapidamente messo
fuori gioco, anche il governo e lo stesso sovrano appaiono non meno emarginati;
ma alla fine tutto poté svolgersi nei limiti della legalità, per quanto intesa
in modo solo formale. Già sul finire dell’anno infatti i più attenti fra gli
osservatori stranieri parlavano esplicitamente di gabinetto-ombra: per di più,
esso era assai ristretto, se – come rende esplicito il carteggio fra i due –
solo Salandra e Sonnino ne facevano parte a pieno diritto, mentre Ferdinando
Martini, che pure aveva con loro stretti contatti, rimase nettamente in
subordine. È nota l’altalena di quei mesi: la spinta alla guerra a fianco dell’Intesa
era operante già al cadere della prima decade di agosto, si interruppe durante
la lunga e decisiva battaglia della Marna, prese consistenza e si esplicitò
nella seconda metà di settembre, per trascinarsi poi abbastanza stancamente
durante l’inverno, riprendere con forza a febbraio e concretizzarsi agli inizi
di marzo, quando sembrò accentuarsi il pericolo, che teneva continuamente in
allarme l’Italia, di una pace separata fra Russia e Austria, a tutto vantaggio
della prima. Nel frattempo, anche se con estrema lentezza, si portavano avanti
le trattative con gli Imperi centrali, intavolate fin dal settembre, che
sfociarono, in seguito al pressante intervento tedesco, nelle concessioni
presentate ai primi di maggio, faticate quanto inutili. Ma i ministri, alcuni
dei quali intanto si erano dimessi o erano stati sostituiti in relazione all’eventualità
della guerra, di tutto questo seppero fino al 7 maggio poco più di ciò che
trapelava da indiscrezioni giornalistiche o d’ambasciata. D’altronde sarebbe difficile
delineare quella che oggi chiameremmo una “politica ministeriale”, o qualcosa
che andasse oltre una gestione più o meno accurata del proprio settore. Si potrebbe
parlare forse di una tendenza, da parte di Salandra, a trasformarsi in una
specie di cancelliere, se non ci fosse stato, tutt’intorno, questo vuoto, che d’altronde
egli favoriva non solo aiutando il disimpegno altrui, ma cercando di confondere
le carte in tavola, in un giuoco difficile ed ambiguo, condotto con una tenacia
sorniona, che solo di tanto in tanto si rompeva per dar luogo a veementi
invettive contro chi facesse impedimento alla trama che egli andava tessendo, e
soprattutto contro “l’imbelle democrazia”. (…) (Neppure il Parlamento) viveva
di una vita molto florida, dato che non solo fu vacante la maggior parte del
tempo, ma – secondo una prassi già seguita in occasione dell’impresa libica –
venne convocato a cose fatte, per sanzionare un’entrata in guerra che, più
volte e ancora di recente, aveva esplicitamente dimostrato di non volere, quasi
a renderne ufficiale l’umiliazione e la sconfitta. (…) Sembra che i più abbiano
paura ad affrontare il terreno minato delle prospettive per il prossimo futuro,
e lascino l’incombenza ai grandi, limitandosi a perorare (…) la causa di questo
o quel luogo, settore economico, gruppo sociale. (…) Qui è la chiave per
intendere come mai il 20 maggio – ad appena una settimana dalle dimissioni con
cui Salandra aveva preso atto dell’ostilità della Camera alla sua politica – su
482 presenti ben 407 votassero a favore del conferimento al governo dei poteri straordinari per l’entrata
in guerra, senza nessun dibattito, senza prendere in nessun modo le distanze da
una decisione a cui si erano dichiarati fino al giorno prima contrari. Dei 74
voti contrari, 47 furono quelli espressi dal gruppo parlamentare socialista, l’unico
che tenesse non solo a ribadire la propria avversione alla guerra, ma tutta la
pericolosità implicita nei modi in cui si era giunti all’intervento. (…) Si
trattava in realtà di un atteggiamento che, proprio in quanto affondava le sue
radici nell’assenza di forme di aggregazione politica sufficientemente solide e
spersonalizzate, era denso di pericoli e di minacce per il futuro più, forse,
del cosiddetto “colpo di stato” di Salandra e della compiacente tolleranza che
il governo aveva usato soprattutto nell’ultimo mese verso le manifestazione e
le violenze dei diversi gruppi interventisti. Altrettanto incerto e
contradditorio fu il ruolo svolto dal re, prima e dopo la firma del Patto di
Londra, avvenuto il 26 aprile 1915. Si trattava di un re al quale lo Statuto
attribuiva poteri d’intervento assai precisi, che a più riprese aveva
esercitato un’iniziativa preminente nella direzione della politica estera, ma
che di fatto e volontariamente rinunciava in quel momento ad esercitarla e
veniva in qualche modo costretto a farlo, nella direzione da altri voluta:
coinvolto suo malgrado, ma anche per sua colpa. (…) E se Sonnino mostrava di
essere perplesso riguardo al silenzio mantenuto con il re in merito alle ormai
avanzate trattative londinesi, Salandra rispondeva tranquillamente il 16 marzo
che eventuali opposizioni del sovrano, come del Parlamento, non gli parevano
probabili, nonostante il diverso orientamento. Ciò significava considerare già
sconfitti, fuori gioco, due dei poteri fondamentali dello Stato. Si è
disquisito a lungo per stabilire se il patto di Londra coinvolgesse il re, il
paese, o solo il governo firmatario, e dunque se la crisi, apertasi con le
dimissioni di Salandra il 13 maggio, fosse una farsa o meno; così come si è molto
discusso se la rinuncia di Giolitti a tornare al potere fosse dettata dalla
consapevolezza dell’inevitabilità per chiunque di attuare l’intervento nei modi
e nei tempi previsti dal patto, oppure dalla convinzione che un governo “intesista”
potesse meglio concludere le trattative con l’Austria e la Germania, giunte ad
un punto decisivo. Il fatto stesso, però, che tali interrogativi siano potuti
fondatamente sorgere, sta a dimostrare la natura complessa e per certi versi
abnorme della situazione costituzionale venutasi a creare in Italia fra il 1914
e il 1915. È un’Italia disorientata e divisa quella “ufficiale” che decide o
accetta l’intervento, e che solo su un punto si trova d’accordo: nel giudicare
l’esercito inetto e impreparato rispetto al compito che l’attende. La sfiducia
emerge (…) anche dagli atti degli uomini del potere, preoccupati di ridurre l’esercito
a mero esecutore di accordi diplomatici già stipulati, e dagli attacchi degli
interventisti contro quanti avevano abbassato il livello di efficienza, di
preparazione, di equipaggiamento militare, quando se mai era vero che le spese
per l’esercito, tradizionalmente assai cospicue, erano state di recente
ulteriormente gonfiate. I problemi dell’esercito erano in realtà altri, e si
chiamavano, ad esempio, inadeguatezza sul piano legislativo ed organizzativo
per ciò che concerneva sia il funzionamento interno, sia i rapporti con l’esterno,
inconsistenza e rigidità dei piani operativi e degli indirizzi strategici
rispetto alle esigenze di un esercito di massa. “”
Storia
d’Italia. Dall’Unità ad oggi. Libro 11. Lo stato liberale. pg. 1977-1984.
Einaudi/Sole24Ore, 2005.
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