Secondo i
dati World Meteorological Organization
(WMO), l’aumento di CO2 nell’atmosfera è cresciuto del 43% rispetto ai tempi
della rivoluzione industriale, raggiungendo le 4.000 parti per milione, che è
il livello atteso anche per il 2016, nonostante i proclami e gli impegni presi
a livello mondiale per la riduzione dell’emissione (principalmente, causata
dalle attività umane).
La temperatura media del globo è aumentata, ormai in
modo stabile, di 1° e aumenterà di 2° entro il 2035 (fonte: Intergovernmental
Panel of Climate Change, IPCC, organismo dell’ONU), limite massimo indicato dai
climatologi oltre il quale gli squilibri avrebbero conseguenze catastrofiche.
Essere
consapevoli dei rischi è premessa necessaria, cui deve seguire una azione
globale per ridurre il rischio sempre più evidente e prossimo di catastrofe.
Gli impatti sarebbero devastanti per la vita sul pianeta: fauna, flora, mari,
fauna marina, uomo sarebbero direttamente colpiti, divenendo a rischio
estinzione. Non quantificabili sarebbero gli impatti sulle fonti alimentari,
sulla salute, sulla vita del pianeta.
Sinora, i programmi
presentati sono stati “top-down”: grandi accordi siglati in riunioni plenarie
(Kyoto, Rio dei Janeiro, Copenhagen) privi di azioni conseguenti; da oggi si
cambia, con l’adozione di programmi “bottom-up”: alla Conferenza di Parigi, 166
paesi (su 195 coinvolti) hanno presentato impegni volontari di riduzione di
emissioni. Guardando ai singoli impegni volontari di 147 piani ufficiali, l’IPCC
ha constatato che essi non bastano per contenere il riscaldamento del pianeta
entro i 2°, ma porterebbero complessivamente ad un innalzamento di 2,7°, quindi
oltre la soglia di rischio climatico catastrofico; i gas-serra continuerebbero
a crescere ad un ritmo del 40% sul periodo 1990-2025 e del 45% sul periodo
1990-2035.
La situazione
complessiva -- sul breve termine e facendo il raffronto fra sviluppo economico
avuto rispetto al 2013 che è stato un +3% del PIL mondiale ed emissioni di
gas-serra che fra 2013 e 2014 sono rimaste allo stesso livello – risente comunque
del positivo contributo delle fonti rinnovabili ed alternative come fonti
energetiche, e tenuto conto che il consumo di energia è aumentato nel breve
periodo (seppure con tassi inferiori a quelli di crescita del PIL).
Ma quali sono i
paesi che emettono più CO2? Quali impegni hanno messo “nero su bianco” nei loro
piani ufficiali? Che cosa manca e non funziona?
Attualmente, i ¾
delle emissioni globali sono prodotti da 10 aree: Cina (che produce 1/3 del
totale di 35 milioni di tonnellate di CO2 annue), Stati Uniti (circa il 15%),
UE 28, India, Russia, Giappone, Sud Corea, Brasile, Indonesia, Canada; il resto
del mondo, complessivamente, produce meno di 1/3 delle emissioni.
La Cina è
quindi il paese che dovrebbe fare il “salto in avanti” più significativo: oggi,
emette 10,3 milioni di tonnellate annue di CO2; si pone l’obiettivo di arrivare
a 3,85 milioni; in base al piano presentato, la Cina avrà un “picco” nel 2030,
si impegna a ridurre del 60-65% rispetto al 2005 per unità di PIL, di aumentare
del 20% la quota di fonti energetiche diverse da quelle fossili (oggi, la Cina
è il maggior utilizzatore di carbone), di aumentare la consistenza delle sue
foreste di 4,5 miliardi di metri cubi rispetto al 2005. Piani ambiziosi, che
richiederanno anche imponenti investimenti diretti ed indiretti (modifiche nel
modo di produrre, muoversi, riscaldare e condizionare le abitazioni), sia
privati che pubblici (in larga parte).
Gli Stati Uniti
oggi emettono 5,3 milioni di tonnellate annue di CO2; si impegnano a ridurre le
emissioni di gas-serra del 26-28% per il 2025 rispetto al 2005, con una
emissione annua (anno-obiettivo) che scenderà a 4,3 milioni.
I paesi della
UE si sono complessivamente impegnati a ridurre le emissioni da 3,7 milioni di
tonnellate annue a 2,6 milioni nell’anno-obiettivo, attraverso un piano che
prevede riduzioni annue nella misura di almeno il 40% rispetto al 1990, entro il
2030.
E l’Italia? Come
sempre, la “prima della classe” nei proclami: più che dimezzare l’emissione di
CO2 da 0,39 milioni di tonnellate a 0,17 milioni, entro il 2030.
Ma sono
credibili e raggiungibili questi obiettivi nazionali? Con quali risorse,
investimenti, costi questo obiettivo potrà essere raggiunto?
Su questi temi,
politica governo ed industria (non solo delle energie: pensiamo a quanto dovrà
essere fatto dall’industria di trasformazione manifatturiera meccanica,
alimentare e così via) non fissano piani e programmi di dettaglio degli
investimenti richiesti, di dove e come questi saranno richiesti e destinati, di
quali costi addizionali le produzioni nazionali saranno appesantiti.
Investimenti
e maggiori costi (almeno nel breve-medio periodo) significheranno anche minori
utili, minori dividendi, impegni finanziari addizionali; tutti aspetti che
azionisti, investitori, finanziatori sono chiamati ad approfondire e ben
valutare.
Ci si dovrà attendere anche un “passaggio” di risorse, “focus”,
impegni da “vecchie tecnologie” (basate sull’impiego di fonti energetiche
fossili) a “nuove tecnologie”, che quindi potranno e dovranno crescere ed
arricchirsi ed arricchire (professionalità e competenze).
Le “avvertenze” per
gli investitori sembrano chiare: puntare sulle industrie “pulite” e che creano
tecnologie “pulite” al servizio di questo “vaste programme” mondiale.
Occorre un “salto
oltre la siepe”, confidando che gli indubbi passi in avanti fatti dalla ricerca
nel campo delle energie rinnovabili, dell’efficienza energetica, delle
biotecnologie ed altre discipline possano “ricadere” in modo positivo sul “fare
industria” e lavorare al servizio del complessivo “benessere” nazionale (e non
solo).
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