Traiamo spunto dalle dichiarazione del presidente della
Fondazione Cariplo, dottor Guzzetti, riportate nell’articolo su MilanoFinanza di
mercoledì 28 ottobre 2015 e qui di seguito riprese: “”Invece le Fondazioni di origine bancarie possono anche investire in
un'eventuale bad bank se questa rispetterà le due regole fissate dalla legge:
la garanzia degli investimenti e la loro redditività. "In linea
teorica", ha osservato Guzzetti, "se si realizzerà una bad bank e gli
investimenti in questo strumento rispetteranno questi due requisiti, ogni
Fondazione potrà decidere di investire in quest'attività". Le Fondazioni
potrebbero, dunque, partecipare al veicolo di gestione delle sofferenze, la cui
creazione è ancora oggetto di trattative tra il governo italiano e la
Commissione europea, a patto che vengano rispettati i requisiti previsti per
questi enti.””
Siamo contrari alla creazione di una “bad bank di sistema”, ed in particolare ad una
partecipazione delle Fondazioni Bancarie all’azionariato della “bad bank”
stessa.
Come stanno le banche italiane?
Guardiamo ad alcuni dati, aggiornati al I semestre 2014
(ultimo dato disponibile):
170 miliardi
è il valore dei prestiti in sofferenza,
su un totale di 1.240 miliardi di euro di prestiti alla clientela;
103 miliardi sono gli incagli (situazioni di temporanea
difficoltà, che comprendono prestiti scaduti da oltre 270 giorni, o che
rappresentano oltre il 10% dell’importo affidato);
305 miliardi è il totale delle
sofferenze (dal 2015 cambiano le regole di classificazione dei crediti
deteriorati, ma non il loro accertamento), pari al 24,6% dei prestiti alla clientela.
La Banca d’Italia ha rilevato come le “posizione deteriorate” siano il 18,7% del prestiti, 2 punti
percentuali sopra la media UE, e che il tasso
di copertura attraverso accantonamenti fatti (coverage ratio) sia
il 32%, 10 punti in meno della media UE e complessivamente pari all’88,9% del
patrimonio delle banche italiane (che in molti casi hanno realizzato aumenti di
capitale per reintegrare il patrimonio di vigilanza, l’ultimo dopo il Comprehensive Assessment della BCE).
Si tratta di un fardello – cresciuto negli anni
recenti in coincidenza (e a causa) della crisi economica nazionale – che limita la capacità di fare credito,
poiché impone accantonamenti di bilancio e quindi allocazione di capitale su
posizione non performing (da cui il nome NPL, acronimo di Non Performing Loans) a detrimento dei prestiti performing
verso la clientela. Una delle cause del credit crunch.
Come noto, il mercato
del NPL consiste nella cessione a terzi di crediti non
performing, a un prezzo di mercato che rappresenti il punto di incontro fra
domanda degli investitori interessati al NPL e l’offerta da parte delle
banche. Tale mercato vale circa 3 miliardi, meno dell’1,5% delle sofferenze. Lo smobilizzo dei
crediti in sofferenza potrebbe ricostituire la capacità delle banche di erogare
credito.
Che cosa impedisce lo sviluppo di un mercato NPL in Italia?
Fra gli ostacoli, sono indicate norme e procedure lente di recupero crediti,
norme fiscali che limitano o
rendono poco efficiente “portare a perdita” i crediti in sofferenza. Da qui, la
richiesta di interventi legislativi che portino a uno snellimento normativo.
Che cosa pensano di fare Banca d’Italia e le banche italiane?
La soluzione avanzata è quella della “bad bank”: una struttura cui trasferire, in tutto o in parte
rilevante, le sofferenze bancarie.
La proposta si incentra sulla costituzione di una
società-veicolo, con un capitale relativamente modesto (si parla di un capitale
iniziale di 3 miliardi) cui partecipi anche lo Stato (si presume, attraverso il
Ministero dell’Economia e delle Finanza o tramite la CDP, la Cassa Depositi e
Prestiti). Le banche conferenti
sarebbero i maggiori azionisti, accanto a nuovi soci privati. La bad
bank porterebbe in pancia i
crediti deteriorati sino a 50 miliardi e si finanzierebbe sul
mercato con bond garantiti dallo Stato.
Al momento, non sono ancora noti i criteri per la
valorizzazione dei prestiti in sofferenza da trasferire: saranno “acquistati” al
loro valore netto attuale o al netto degli accantonamenti già
effettuati? Ad un ipotetico valore di realizzo? Chi procederebbe alla
valutazione del valore di realizzo? Tutti questi quesiti dovranno trovare
confronto e soluzioni coerenti con l’obiettivo finale: rendere nuovamente
“bancabile” l’attivo delle banche italiane.
I pro della “bad bank”
Con la “bad bank”, una percentuale
significativa delle sofferenze bancarie (sino a 50 miliardi, su totali 170
miliardi) sarebbe “venduta” a un soggetto terzo, ripristinando la capacità di erogare credito per le banche.
Il "prezzo" di acquisto non sarebbe fissato da "criteri di mercato" ma dalla volontà delle banche e del "veicolo" (che è partecipato, fra l'altro, dalle banche stesse) senza diretto e fattuale riferimento all'ipotetico valore di realizzo (tipico delle operazioni di NPL, fatte a valori di mercato), secondo una logica "di sistema"; il veicolo -- a nostro avviso -- si trova inoltre in (palese) "conflitto di interessi";
Contemporaneamente, le banche potranno “portare a perdita”
l’eventuale minore valore fra valore netto a bilancio (dopo gli accantonamenti
già fatti) e valore di cessione dei crediti.
Secondo Banca d’Italia l’operazione non dovrebbe gravare sulle casse pubbliche e dovrebbe
vedere il coinvolgimento delle banche alla copertura dei costi dell’operazione,
che dovrebbe essere remunerativa del sostegno pubblico.
I contro della “bad bank”
Una soluzione di sistema non
è una soluzione di mercato: il prezzo di un NPL fissato
dall’incontro fra domanda e offerta rappresenta il punto di incontro “giusto”
per consentire vantaggi a chi vende (incasso immediato) e chi compra (un prezzo
che sconta la probabilità di recuperare il credito nominale).
Esistono operatori specializzati (tutti esteri, al
momento, anche a causa dell’arretratezza del mercato italiano) che “sanno di
che si tratta” e che sembrano quindi poter rappresentare il soggetto in grado
di dare il giusto prezzo, in modo autonomo e indipendente a un NPL o a un
pacchetto di NPL. Non si vede come una “bad bank”, di nuova
costituzione, possa dotarsi di tali
competenze in tempi rapidi, e in assenza di conflitti di interesse.
Non si comprende la logica di pubblicizzare le
perdite, attraverso la concessione di
garanzie statali a favore di soggetti, siano essi gli azionisti delle banche
come le Fondazioni Bancarie (che sono 88 ed ancora detengono partecipazioni
rilevanti in molte banche), siano essi soggetti partecipati da banche private.
A mio avviso, la “band bank” nella versione italiana è una soluzione contro il mercato,
con assunzione di un rischio a carico del pubblico che si pone anche,
potenzialmente, in contrasto con la
normativa europea sul libero esercizio di impresa e sugli aiuti di Stato.
Inoltre, la presenza
nell’azionariato delle banche (o peggio, degli azionisti delle banche stesse),
le stesse banche che hanno erogato a suo tempo i crediti ora trasferiti alla “bad
bank”, rappresenta un elemento di debolezza: chi non ha saputo erogare
credito correttamente, come potrebbe recuperarlo correttamente?
In sintesi, siamo favorevole allo smobilizzo dei NPL, ma non a una “bad bank” con un intervento pubblico rilevante, come sarebbe nel caso di una garanzia pubblica. Siamo contrari a un intervento di CDP, che non deve divenire una “nuova IRI” e che a ben altri obiettivi deve orientare la sua area di intervento. I NPL vanno venduti sul mercato, al miglior offerente, ai prezzi che potranno essere determinati dall’incrocio fra offerta (vendita) e domanda (acquisto).
Crediamo che se e quando una banca ha sbagliato nel “fare banca” sia bene che essa esca dal mercato, che gli azionisti ne sopportino le conseguenze, che i manager bancari siano più attenti nel concedere credito e nell’evitare l’ “azzardo morale” (smettendo quindi di confidare nell’aiuto del sistema).
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