“” Data la
linea tradizionale della diplomazia britannica, una guerra contro la Germania
sembrava un’ipotesi remota e trascurabile. L’alleanza permanente con una
potenza continentale sembrava incompatibile col mantenimento di quell’equilibrio
che era il principale obiettivo della politica estera britannica. Un’alleanza
con la Francia sembrava improbabile; un’alleanza con la Russia quasi
impensabile. Eppure avvenne l’inverosimile: l’Inghilterra si legò stabilmente
con la Francia e la Russia contro la Germania, appianando tutte le divergenze
con la Russia al punto di acconsentire a un’occupazione russa di Costantinopoli
(consenso svanito con la Rivoluzione russa del 1917).
Come e perché avvenne
questo cambiamento stupefacente?
Avvenne perché i
giocatori e le regole del gioco diplomatico internazionale erano cambiati. In primo
luogo, il tavoliere di gioco era diventato molto più grande. Le rivalità, un
tempo limitate in gran parte (ad eccezione dell’Inghilterra) all’Europa e aree
adiacenti, erano adesso globali e imperiali (…). Le vertenze internazionali da
appianare perché non degenerassero in guerre potevano adesso riguardare l’Africa
occidentale e il Congo (1880-90), la Cina (1890-1900) e il Maghreb (1906, 1911)
non meno del corpo in decomposizione dell’impero ottomano; e assai più che l’Europa
non balcanica. Inoltre c’erano adesso giocatori nuovi: gli Stati Uniti, che pur
evitando ancora coinvolgimenti in Europa, erano attivamente espansionistici nel
Pacifico, e il Giappone. L’alleanza inglese col Giappone (1902) fu in effetti
il primo passo verso la Triplice Intesa, perché l’esistenza di quella nuova
potenza, che avrebbe dimostrato di essere in grado di sconfiggere l’impero
zarista, riduceva la minaccia russa per l’Inghilterra e rafforzava quindi la
posizione inglese, rendendo possibile l’accantonamento di vari antichi motivi
di contrasto russo-britannici.
Questa globalizzazione
del gioco internazionale trasformò automaticamente la situazione del paese che
fino allora era stato l’unica grande potenza con obiettivi politici
autenticamente mondiali. Non è esagerato dire che per la maggior parte dell’Ottocento
la funzione dell’Europa nei calcoli diplomatici britannici era stata di
starsene tranquilla perché l’Inghilterra poteva badare alle sue faccende, per
lo più economiche, nel resto del globo. Era questa l’essenza della caratteristica
combinazione di equilibrio europeo e di pax
britannica globale garantita dall’unica marina di dimensioni globali, che
controllava tutti gli oceani e le vie marittime del mondo. A metà Ottocento
tutte le altre marine militari del mondo messe insieme superavano a malapena la
marina britannica da sola. Alla fine del secolo non era più così.
In secondo
luogo, con l’avvento di una economia capitalistica industriale moderna, la
partita internazionale si giocava per poste molto diverse. Ciò significava che
(…) la guerra era diventata solo la continuazione della concorrenza con altri
mezzi. Era questa un’idea che attirava i deterministi storici del tempo, se non
altro perché essi vedevano abbondanti esempi di espansione economica per mezzo
di mitragliatrici e cannoniere: ma era un’idea grossolanamente semplicistica. Se
lo sviluppo capitalistico e l’imperialismo hanno le loro responsabilità per l’incontrollato
slittamento nel conflitto mondiale, è impossibile sostenere che molti capitalisti
fossero deliberatamente guerrafondai. Qualsiasi studio imparziale dei giornali
economici, della corrispondenza privata e commerciale degli uomini d’affari,
delle loro dichiarazioni pubbliche in quanto esponenti della banca, del
commercio e dell’industria, dimostra esaurientemente che la maggioranza degli
uomini d’affari riteneva vantaggiosa per loro la pace internazionale. La guerra
era accettabile solo in quanto non interferiva con il normale svolgimento degli
affari (…).
Perché infatti
i capitalisti – e anche gli industriali, con la possibile eccezione dei
fabbricanti di armi – avrebbero dovuto desiderare di turbare la pace
internazionale, condizione essenziale della loro prosperità e espansione, dato
che da essa dipendeva l’andamento delle libere operazioni internazionali
commerciali e finanziarie?
Evidentemente chi
traeva profitto dalla concorrenza internazionale non aveva motivo di lagnanza. Come
la libertà di penetrare nei mercati mondiali non è uno svantaggio per il
Giappone di oggi, l’industria tedesca poteva ben contentarsene prima del 1914. Chi
ci rimetteva, tendeva a chiedere protezione economica ai governi; ma ciò è tutt’altra
cosa che chiedere guerra. Inoltre il massimo perdente potenziale, l’Inghilterra,
resistette anche a queste richieste, e i suoi interessi d’affari rimasero in
grandissima prevalenza legati alla pace, nonostante i continui timori nei
riguardi della concorrenza tedesca espressi a gran voce nell’ultimo decennio
del secolo, e nonostante la penetrazione del mercato interno britannico da
parte del capitale tedesco e americano. (…)
Eppure lo
sviluppo del capitalismo spingeva inevitabilmente il mondo nella direzione
delle rivalità statali, dell’espansione imperialistica, del conflitto e della
guerra. Dopo il 1870, come hanno rilevato gli storici, il passaggio dal monopolio alla concorrenza fu probabilmente il fattore
più importante che diede il tono all’impresa industriale e commerciale europea.
La crescita economica era adesso anche lotta economica: una lotta che serviva a
separare i forti dai deboli, a scoraggiare alcuni e a irrobustire altri, a
favorire i paesi nuovi e famelici a spese dei vecchi. All’ottimismo riguardo a un
futuro di progresso indefinito subentrò l’incertezza e un senso di agonia, nel
significato classico del termine. E tutto questo rafforzò, e fu a sua volta
rafforzato dall’acuirsi delle rivalità politiche, fondendosi le due forze di
competizione.
Il mondo
economico non era più, come a metà Ottocento, un sistema solare roteante intorno
a un’unica stella, la Gran Bretagna. Se le operazioni finanziarie e commerciali
del globo passavano ancora e anzi in misura crescente per Londra, l’Inghilterra
non era più l’“officina del mondo”, e neanche il suo massimo mercato d’importazione.
Il suo relativo declino era evidente. Adesso c’erano, e si affrontavano, una
serie di economie industriali nazionali concorrenti. In queste circostanze la
competizione economica si intrecciava inestricabilmente con l’azione politica e
anche militare degli Stati. La rinascita del protezionismo durante la Grande
Depressione fu la prima conseguenza di questo intreccio. Per il capitale, il
sostegno politico poteva d’ora in avanti essere indispensabile sia per tener
fuori la concorrenza estera, sia in parti del mondo in cui le imprese delle
varie economie industriali nazionali concorrevano l’una con l’altra. Per gli
Stati, l’economia era ormai al tempo stesso la base della potenza internazionale
e il criterio della medesima. Era impossibile oramai concepire una “grande
potenza” che non fosse anche una “grande economia” (…).
Viceversa, gli
spostamenti di potenza economica, che cambiavano automaticamente la bilancia
politica e militare, non comportavano logicamente una redistribuzione dei ruoli
sulla scena internazionale?
Questa idea
godeva di largo favore in Germania, paese a cui la straordinaria crescita
industriale dava un peso internazionale incomparabilmente maggiore di quello
avuto dalla vecchia Prussia. (…) Ciò che rendeva tanto pericolosa questa
identificazione di potenza economica e politico-militare non erano soltanto le
rivalità nazionali per la conquista di mercati mondiali e di risorse materiali,
e per il controllo di regioni quali il Vicino e Medio Oriente, dove gli
interessi economici e strategici spesso combaciavano. (…) Ma la novità della
situazione era che, data la fusione di economia e politica, neanche la pacifica
divisione di regioni contese in “zone di influenza” riusciva a imbrigliare le
rivalità internazionali. La chiave della controllabilità, come ben sapeva
Bismarck, che la gestì con maestria impareggiabile fra il 1871 e il 1889, era
la deliberata limitazione degli obiettivi. Finché gli Stati erano in grado di
definire con esattezza i loro obiettivi diplomatici – un determinato
spostamento di confini, un matrimonio dinastico, un “indennizzo” precisabile
per i vantaggi ottenuti da altri Stati – calcoli e accomodamenti erano possibili.
Né gli uni né gli altri, naturalmente (…), escludevano un conflitto militare
controllabile.
Ma il tratto
caratteristico dell’accumulazione capitalistica era appunto che essa non aveva
un limite. (…)
Ciò che rese la
situazione ancora più pericolosa fu la tacita equazione fra illimitata crescita
economica e potenza politica, che venne a essere inconsciamente accettata. Così
l’imperatore di Germania negli anni Novanta chiedeva “un posto al sole” per il
suo paese. Bismarck avrebbe potuto chiedere altrettanto; e di fatto aveva
ottenuto per la nuova Germania un posto nel mondo enormemente maggiore di
quello mai avuto dalla Prussia. Ma mentre Bismarck sapeva definire le
dimensioni delle sue ambizioni, evitando con cura di sconfinare nella zona dell’incontrollabilità,
per Guglielmo II la frase divenne solo uno slogan senza contenuto concreto. Essa
formulava semplicemente un principio di proporzionalità: più potente era l’economia
di un paese, più numerosa la sua popolazione, e maggiore doveva essere la
posizione internazionale del suo Stato nazionale. (…)
In termini
pratici, il pericolo non era che la Germania si proponesse concretamente di
prendere il posto dell’Inghilterra come potenza globale, anche se l’oratoria
nazionalistica tedesca non lesinava accenti antibritannici. Era, piuttosto, che
una potenza globale aveva bisogno di una marina globale; e la Germania perciò
si accinse (1897) a costruire una grande flotta da guerra, che aveva
incidentalmente il vantaggio di rappresentare non i vecchi Stati tedeschi ma
esclusivamente la nuova Germania unita, con un corpo ufficiali che non
rappresentava gli Junker prussiani o altre tradizioni guerriere aristocratiche,
bensì le nuove classi medie, cioè la nuova nazione. (…)
Ma per l’Inghilterra
la costruzione di una flotta tedesca non era solo un ulteriore aggravio per la
già globalmente sovra impegnata marina britannica, ormai molto inferiore numericamente
alle flotte unite delle potenze rivali, vecchi e nuove (…), e che stentava
anche a mantenere il suo più modesto obiettivo di essere più forte delle due
altre marine maggiori combinate (…).
Il processo di
divisione dell’Europa in due blocchi ostili occupò quasi un quarto di secolo,
dalla formazione della Triplice Alleanza (1882) al completamento della Triplice
Intesa (1907). (…) Essi dimostrano soltanto che nel periodo dell’imperialismo
gli attriti internazionali erano globali e endemici, che nessuno – e meno di
tutti gli inglesi – sapeva bene in che direzione lo avrebbero portato le
correnti traverse degli interessi, timori e ambizioni proprie e delle altre
potenze; e che, sebbene fosse opinione diffusa che esse portavano l’Europa
verso una guerra di grandi proporzioni, nessun governo sapeva bene come
rimediarvi. “”
Eric Hobsbawm, “L’età degli Imperi.
1875-1014”, Oscar Mondadori, 1995, pagg. 359-366
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