“”(…) se il
ciclo economico che costituisce il ritmo basilare di un’economia capitalistica
generò senza dubbio alcune crisi molto acute nel periodo che va dal 1873 al
1895 circa, la produzione mondiale, lungi dal ristagnare, continuò a crescere
impetuosamente. Fra il 1870 e il 1890 la produzione di ferro dei cinque
principali paesi produttori fu più che raddoppiata (da 11 a 23 milioni di
tonnellate); la produzione d’acciaio, divenuta adesso l’indice migliore della
industrializzazione in generale, aumentò di venti volte (da mezzo milione a 11
milioni di tonnellate). Il commercio internazionale continuò a crescere in modo
impressionante, anche se a un ritmo meno vertiginoso di prima. Furono questi i
decenni in cui le economie industriali americana e tedesca fecero passi da
gigante, e la rivoluzione industriale si estese a nuovi paesi quali la Svezia e
la Russia. Parecchi paesi d’oltremare di recente integrati nell’economia
mondiale prosperarono come mai prima d’allora (preparando così,
incidentalmente, una crisi debitoria internazionale molto simile a quella degli
anni Ottanta del nostro secolo, il XX, tanto più che i nomi degli Stati
debitori erano più o meno gli stessi). Gli investimenti esteri nell’America
latina raggiunsero nel 1880-1890 cifre iperboliche, mentre il chilometraggio
della rete ferroviaria argentina si raddoppiava in cinque anni, e Argentina e
Brasile attiravano fino a 200.000 immigrati all’anno. Si poteva parlare di
Grande Depressione per un periodo di crescita produttiva tanto spettacolare?
Gli storici
possono dubitarne; ma non ne dubitavano i contemporanei. Questi inglesi,
francesi, tedeschi, americano intelligenti, bene informati ed inquieti erano
vittime di un’illusione collettiva? (…) Quanto agli economisti e agli uomini d’affari,
anche i meno inclini a idee apocalittiche erano preoccupati dalla prolungata “depressione
dei prezzi, depressione degli interessi e depressione dei profitti” (…). Insomma,
dopo il crollo certamente drastico degli anni 1870, ciò che era in gioco non
era la produzione, ma la sua redditività.
L’agricoltura
fu la vittima più vistosa di questo calo dei guadagni; alcune sue branche
costituivano in effetti il settore più depresso dell’economia, e quello in cui
il malcontento aveva le conseguenze sociali e politiche più immediate e di più
vasta portata. La produzione agricola, enormemente cresciuta nei decenni
precedenti, inondava adesso i mercati mondiali, finora protetti dalla massiccia
concorrenza straniera grazie agli alti costi di trasporto. Le conseguenze per i
prezzi agricoli furono drammatiche, sia nell’agricoltura europea sia nelle
economie esportatrici d’oltre oceano. Nel 1894 il prezzo del grano era sceso a
poco più di un terzo rispetto al 1867; cosa molto vantaggiosa per gli
acquirenti, ma disastrosa per gli agricoltori, che costituivano ancora il 40-50
per cento della popolazione lavoratrice maschile nei paesi industrializzati
(con la sola eccezione della Gran Bretagna) e fino al 90 per cento negli altri.
In alcune regioni la situazione fu aggravata dalla coincidenza con altri
flagelli, quali le devastazioni causate dalla filossera dopo il 1872, che fra
il 1875 e il 1889 ridussero di due terzi la produzione vinicola francese. In qualsiasi
paese legato al mercato mondiale, fare il contadino nei decenni di crisi era un
pessimo affare. La reazione degli agricoltori, a seconda della ricchezza e
della struttura politica dei rispettivi paesi, andò dalle agitazioni elettorali
alla rivolta, per non parlare di chi moriva di fame, come in Russia nel
1891-1892. (…) Paesi che non dovevano più preoccuparsi delle classi contadine, perché
queste erano scomparse, poterono lasciar atrofizzare la loro agricoltura: come
l’Inghilterra, dove due terzi della superficie coltivata a grano disparvero fra
il 1875 e il 1895. Altri governi, come in misura notevole quello tedesco, ma
soprattutto quelli francese e americano, preferirono le tariffe, che tenevano
alti i prezzi.
Ma le due
reazioni extragovernative più comuni furono l’emigrazione massiccia e la
cooperazione; la prima attuata prevalentemente da gente priva o povera di
terra, la seconda prevalentemente da contadini con possedimenti potenzialmente
redditizi. Gli anni 1880 videro il massimo flusso migratorio mai registrato nei
paesi di vecchia emigrazione (…), e il vero inizio dell’emigrazione di massa da
pesi come l’Italia, la Spagna e l’Austria-Ungheria, seguiti poi dalla Russia e
dai Balcani. Fu questa la valvola di sfogo che mantenne la pressione sociale al
di qua dell’esplosione rivoltosa o rivoluzionaria. (…)
Industria e
commercio avevano i loro guai. Un’epoca avvezza a pensare che l’aumento dei
prezzi (“inflazione”) sia un disastro economico può stentare a credere che gli
uomini d’affari dell’Occidente si preoccupavano assai più del calo dei prezzi;
e in un secolo, tutto sommato, deflazionistico, non ci fu un periodo più
drasticamente deflazionistico del 1873-1896, quando il livello dei prezzi
scese in Inghilterra del 40 per cento. Infatti l’inflazione – mantenuta entro
limiti ragionevoli – non è solo un vantaggio per i debitori, come sa ogni
padrone di casa con ipoteche a lungo termine, ma produce automaticamente un
aumento del tasso di profitto, in quanto merci prodotte a costo più basso si
vendono ai prezzi più alti vigenti al momento della vendita. La deflazione,
invece, riduceva il tasso di profitto. Una forte espansione del mercato avrebbe
potuto ampiamente controbilanciare questo inconveniente; ma di fatto il mercato
non cresceva abbastanza in fretta, sia perché la nuova tecnologia industriale
rendeva insieme possibili e necessari enormi incrementi di produzione (almeno
nel caso che si volessero gestire gli impianti con profitto); sia perché cresceva
il numero dei produttori e delle economie industriali concorrenti, con
conseguente enorme aumento della capacità produttiva totale; sia, infine, perché
un mercato di massa dei beni di consumo stentava ancora a svilupparsi. Anche nel
caso dei beni capitali la combinazione della nuova e migliorata capacità
produttiva, di un impiego più efficiente del prodotto e dei cambiamenti della
domanda poteva avere effetti drastici: il prezzo del ferro diminuì del 50 per
cento fra il 1871-75 e il 1894-98.
Un’altra
difficoltà risiedeva nel fatto che i costi di produzione erano nel breve
periodo più vischiosi dei prezzi, perché (con qualche eccezione) i salari non
potevano essere o di fatto non erano ridotti in proporzione, mentre le aziende
erano gravate anche da una quantità considerevole di impianti e macchinari
obsoleti o obsolescenti, o di impianti e macchinari nuovi e costosi che dati i
bassi prezzi tardavano a ammortizzare. (…)
Cosa si poteva
fare per la depressione dei prezzi, dei profitti e dei tassi di interessi? (…)
I governi erano
molto più inclini a dare ascolto agli assai consistenti gruppi di interesse e strati
elettorali che li sollecitavano a proteggere il produttore nazionale dalla
concorrenza delle merci d’importazione. Queste categorie infatti non comprendevano soltanto, come
prevedibile, le foltissime schiere degli agricoltori, ma anche una massa ingente
di industriali nazionali che miravano a ridurre al minimo la “sovrapproduzione”
escludendo almeno i rivali stranieri. La “Grande Depressione” mise fine alla
lunga èra liberistica, almeno nella sfera del movimento delle merci. A cominciare,
verso il 1880, dalla Germania e dall’Italia (tessili), le tariffe
protezionistiche diventarono un connotato permanente della scena economica
internazionale, culminando, nei primi anni Novanta, con le tariffe punitive
(...).
Fra tutti i
principali paesi industriali soltanto l’Inghilterra rimase fedele al liberismo
puro, nonostante le forti pressioni esercitate di quando in quando dai
protezionisti. (…) Ma il liberoscambismo non rischiava di sacrificare altresì l’industria
britannica, come temevano i protezionisti? Considerando le cose a un secolo di
distanza (…) quel timore non appare del tutto infondato. Il capitalismo, in fin
dei conti, esiste per fabbricare soldi e non questo o quel determinato
prodotto. Ma se era già chiaro che l’opinione della City londinese contava
assai di più di quella degli industriali di provincia, per allora gli interessi
della City non apparivano ancora in contrasto con quelli del grosso dell’industria.
(…)
Economisti e
storici non hanno mai cessato di discutere sugli effetti di questa reviviscenza
di protezionismo internazionale, o, in altre parole, sulla strana schizofrenia
dell’economia mondiale capitalistica. (…) L’unità “nazione” non aveva un posto
preciso nella teoria del capitalismo liberale, i cui elementi costitutivi
basilari erano gli atomi irriducibili dell’impresa, individuo o “ditta” (su cui
si diceva ben poco), mossi dall’imperativo di massimizzare i guadagni e di
minimizzare le perdite. Questi atomi operavano nel “mercato”, che era, al
limite, planetario. (…) E d’altro canto l’economia capitalistica era, e non
poteva che essere, planetaria, globale. Tale essa divenne sempre più nel corso
dell’Ottocento, man mano che estendeva le sue operazioni a regioni del pianeta
sempre più remote, e trasformava ogni area sempre più profondamente. Inoltre questa
economia non riconosceva frontiere, perché funzionava al meglio là dove nulla
interferiva con il libero movimento dei fattori di produzione. Il capitalismo
quindi non era solo internazionale in pratica, ma internazionale in teoria. L’ideale
dei suoi teorizzatori era un divisione internazionale del lavoro che
assicurasse la crescita massima dell’economia. (…)
Tuttavia, se il
protezionismo fu l’istintiva reazione politica alla Depressione da parte dei
produttori preoccupati, esso non fu la risposta economica più significativa del
capitalismo ai propri problemi. Tale risposta fu una combinazione di
concentrazione economica e di razionalizzazione delle imprese (…). Entrambe le
cose erano tentativi di allargare i margini di profitto, compressi dalla
concorrenza e dalla caduta dei prezzi.
La
concentrazione economica non va confusa con il monopolio in senso stretto
(controllo del mercato da parte di una singola impresa), o nel senso più lato e
più usuale di controllo del mercato da parte di un pugno di ditte
dominanti (oligopolio). (…) il controllo del mercato e l’eliminazione della
concorrenza furono solo un aspetto di un più generale processo di concentrazione
capitalistica, e un aspetto né universale né irreversibile: nel 1914 c’era
nelle industrie americane del petrolio e dell’acciaio parecchia più concorrenza
di dieci anni prima."".
Eric J. Hobsbawn, “L’età degli Imperi”
1875-1914, Oscar Mondadori, 1996, pagg. 41-51.
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