Ogni anno, 5.187 milioni di euro di accantonamenti da quote TFR
dei dipendenti privati sono diretti a forme di pensione complementare; una
cifra che rappresenta il 43,5% di tutti i flussi verso il sistema previdenziale
integrativo del 2013, che sono stati 11.913 milioni; la percentuale sale al
63,4% (2.733 milioni su totali 4.308 milioni) per i fondi pensione negoziali,
che da soli hanno assorbito il 36,2% dei flussi dell’anno.
Una eventuale misura
– come quella sottoposta dal governo in carica – che indirizzi l’accantonamento
annuo del TFR verso la “busta paga”, anche parzialmente, avrebbe impatti
negativi sull’intero sistema della previdenza complementare: un settore che si
vuole, da anni, favorire (a parole, che non costano nulla, e crescono come funghi velenosi), ma che avanza a passi lenti, per cui una misura come
quella immaginata dal governo avrebbe l’effetto di uno “stop” forse definitivo,
se solo si osserva che dal 2007 i lavoratori che hanno aderito al conferimento
tacito del TFR ai fondi complementari sono stati 231.000, l’8% dei nuovi
iscritti (dipendenti del settore privato) e solo il 3,7% dei 6.200.000 iscritti
totali alle forme pensionistiche complementari.
Come da troppo tempo accade nel
paese, la coperta è corta: tiri da una parte, si scopre dall’altra.
La impreparazione (parente prossima dell'ignoranza) dei tecnici al governo rischia di sfornare un'altra bestialità che avrà conseguenze per i decenni a venire (se arriveranno). Nella frenesia di raccogliere la debole legna troppo fresca del consenso a breve, si tagliano le radici di alberi in formazione.
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