Da “Federico II. Un imperatore medievale” di David Abulafia, 1988-1993, pg.
275 e sgg. : una lettura su come l’imperatore e Re di Sicilia avesse
organizzato il sistema di controllo economico e fiscale nell’isola e nelle
regioni meridionali del regno.
“” Federico considerava le risorse granarie della Sicilia e della Puglia un
serbatoio essenziale per alimentare le campagne militari. Il grano era infatti
indispensabile alla flotta regia in acque siciliane o (sotto forma di gallette)
alle guarnigioni siciliane in Terra Santa. Ma meglio di tutto era la
possibilità di trasformare il surplus in moneta sonante, da trasferire
immediatamente al suo campo dell’Italia settentrionale per far fronte alle
spese più urgenti. (…) (Nel febbraio 1240) fu necessario chiudere i porti in
modo che nessun mercante potesse portar via del frumento prima che le navi di
Federico avessero levato le ancore. (…) Federico, tuttora infastidito dalle
sotterranee manovre dei Genovesi, non vedeva ragione di consentir loro di
realizzare un profitto che, a sapersi destreggiare, poteva finire nelle sue
tasche. (…) Imposte sul grano: un quinto del valore del carico in Puglia e
Sicilia, dove la produzione era abbondante, a fronte di un settimo in Calabria
o Abruzzo, regioni meno fertili. Queste disposizioni erano intese a rassicurare
i portolani incerti sull’applicazione di norme precise. (…) I sovrintendenti
del traffico portuale di Garigliano vennero invitati a gravare di un settimo
anche i cavalli e i muli: al pari di grano, bestiame, carne e sale dovevano
essere oggetto di una sorveglianza ravvicinata. Tra le righe si intravvede l’urgenza
di incrementare quanto più possibile gli introiti. Per molto tempo la Corona
aveva fatto affidamento sull’export per far quadrare i bilanci (…). Ai portolani
si richiedeva di tener conto dei carichi, verificare i prezzi, prender nota di
ogni dato significativo (e dei pagamenti ricevuti) nel loro registri (…). Un’altra risorsa su cui Federico faceva grande
affidamento era il sale, oggetto di più di un tentativo di monopolio. Sin dal
1231 la monarchia aveva esercitato un esteso controllo sulle saline,
accumulando scorte di sale da vendere all’interno del regno. A volte però il
prezzo fissato era troppo elevato, e Federico si teneva pronto a calare le
pretese non appena i suoi uomini di fiducia lo avvisavano si una stasi nel
mercato. (…). Maggiore circospezione mostrava invece l’imperatore per quanto
atteneva al bestiame. Degli animali macellati si poteva naturalmente fa
commercio all’estero (tanto più che la salatura richiedeva ingenti quantità di
sale della Corona); tutt’altro paio di maniche erano quelli vivi. Non si
contano le disposizioni mirate a impedire l’esportazione di cavalli dal regnum
e incoraggiare l’allevamento di destrieri da battaglia destinati all’esercito
imperiale: i cavalli erano una merce di eccezionale pregio, così come del resto
i muli. Trovandosi a corto di bestie da soma, Federico ordinò di far accoppiare
fra loro cavalli e asini e impose a vari distretti del Mezzogiorno di
contribuire alle campagne militari con l’invio di piccoli contingenti di muli. Anche
qui si nota lo sforzo di evitare inutili sprechi di denaro, visto che l’alternativa
era di entrare in concorrenza sul mercato con il mercato. Nella Capitanata si
doveva seminare l’avena, onde provvedere di foraggio gli indispensabili
animali. L’intero ciclo di riproduzione e allevamento di cavalli e muli era
quindi oggetto di controllo remoto da parte dell’imperatore, che peraltro volse
lo sguardo anche in altri direzioni (…) (come la) macellazione in grande stile
di maiali nel Messinese. (…) Gli avanzi venivano trasformati in pancetta, della
quale per qualche tempo la Sicilia orientale fu un importante produttore.””
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