Riprendiamo un estratto dell’articolo di Fausto Panunzi pubblicato il 30 giugno 2007 su NoisefromAmerika, che riassume sinteticamente quanto scritto da Yegor Gaidar (Primo Ministro, Ministro dell’economia e vice Primo Ministro della Russia nel periodo 1991-1994) nel suo The Collapse of an Empire: Lessons from Modern Russia pubblicato da Brookings Institution Press nel luglio 2007.
Pane e petrolio: queste sono le due parole chiave per capire il crollo dell’impero sovietico.
Pane in realtà deve essere inteso in senso lato, come beni agricoli, granaglie in primo luogo. L’agricoltura sovietica è stata sempre in crisi, almeno da quando Stalin decise, negli anni ’30, di espropriare la terra ai contadini, per passare alla collettivizzazione dei lavori agricoli. Se prima della Prima Guerra Mondiale la Russia era il primo esportatore di granaglie al mondo, negli anni ’60 era diventato il più grande importatore, più di Giappone e Cina messi assieme.
E come venivano pagate le importazioni di beni agricoli? Non certo con beni industriali, la cui qualità era così scadente che nessun Paese (esclusi quelli del blocco comunista che non avevano molta scelta) era disposto ad accettarli come contropartita.
L’unico bene che l’Unione Sovietica poteva offrire per pagare le sue importazioni era il petrolio. Per tamponare una crisi dell’agricoltura sempre più grave, già negli anni ’70 i pozzi petroliferi sovietici venivano sfruttati in modo eccessivo, causandone un rapido deterioramento. Ma Breznev non aveva scelta se non voleva affamare la popolazione sovietica (e quella del blocco comunista). Poi, all’inizio degli anni ’70, il colpo di fortuna: la crisi petrolifera fece schizzare alle stelle il prezzo del petrolio e questa fu una boccata d’ossigeno per l’economia sovietica. Ma questo colpo di fortuna fu completamente sprecato dalla dirigenza sovietica. Così come le enormi riserve di oro e argento dalle colonie avevano anestetizzato l’economia dell’impero spagnolo tra la fine del 1500 e l’inizio del 1600, l’alto prezzo del petrolio rinviò ogni piano di ammodernamento dell’industria sovietica. L’unica strategia del Politburo fu quella di ordinare al KGB di alimentare il terrorismo nei Paesi arabi per tenere alto il prezzo del petrolio. Poi ci fu l’invasione dell’Afghanistan e l’inizio della fine. L’Arabia Saudita capì che essa era il primo passo verso un tentativo di controllo sovietico dei campi petroliferi del Medio Oriente e decise di chiedere la protezione degli Stati Uniti. E per averla fece un gesto di buona volontà: il 13 settembre 1985 lo sceicco Yamani, ministro del petrolio saudita, annunciò che la produzione di greggio saudita sarebbe drasticamente aumentata, facendo così scendere il suo prezzo. A quel punto l’agonia dell'Unione Sovietica era iniziata e l’unica incertezza era la data della sua dissoluzione.
Con un basso prezzo del petrolio, i leader sovietici avevano tre opzioni.
Potevano rinunciare al blocco orientale, riducendo i sussidi versati alle nazioni satelliti e, anzi, vendendo loro il petrolio sovietico ad un prezzo di mercato. Questa soluzione, però, era ideologicamente costosa, perché significava negare i risultati della Seconda Guerra Mondiale. Nessun membro del Politburo ebbe il coraggio di suggerirla, poiché sapeva che avrebbe rischiato di perdere il suo posto al top della nomenklatura.
Oppure potevano ridurre le importazioni agricole, razionando il cibo. Ma i dirigenti sovietici sapevano che ciò avrebbe comportato una dura rivolta popolare, dalle conseguenze incalcolabili.
Infine, potevano ridurre le spese per l’apparato militare. Ma l’economia di intere regioni dipendeva dalla produzione militare. Non era escluso che la leadership di tali regioni avrebbe guidato la rivolta contro i dirigenti centrali, se tale decisione fosse stata presa.
Il Politburo scelse di non scegliere e aspettare. Per pagare le importazioni agricole, nel 1989 il governo sovietico chiese un prestito di 100 miliardi di dollari ai governi occidentali (nessuna banca avrebbe mai concesso prestiti all’Unione Sovietica). Ma la richiesta di un prestito così ingente significava di fatto la fine del potere sovietico sul blocco orientale. I leader polacchi capirono per primi che l’Unione Sovietica non avrebbe mai mandato i carri armati per reprimere le manifestazioni di piazza organizzate da Solidarnosc. Al vertice di Malta del 1989 Gorbaciov lo garantì esplicitamente all’allora Presidente Bush Sr. Sei settimane dopo, non c’era più alcun regime comunista nell’ormai ex blocco sovietico. Ma ormai anche la crisi interna era matura. Quando ci furono le prime rivolte nei paesi baltici, i governi occidentali dissero a Gorbaciov che poteva fare quello che voleva, dato che era una questione interna dell’Unione Sovietica. Naturalmente, se avesse usato la forza, poteva però scordarsi il prestito. A questo punto Gorbaciov si trovava di fronte ad un dilemma insolubile. Uno stato che non ha risorse economiche e non può difendere le frontiere è già morto, dice Gaidar. La fine avvenne, come sappiamo, nell’agosto 1991 con il fallito colpo di stato.
Quali sono le lezioni che Gaidar trae da queste vicende?
In primo luogo, ci ricorda che l’economia sovietica dipende ancora dal petrolio e dal gas e che quindi ha sempre fragili fondamenta.
In secondo luogo, che i regimi autoritari sono fragili nei momenti di crisi. Nei momenti di stabilità solo una minoranza sente come intollerabile la mancanza di libere elezioni. Nei momenti di crisi, la tolleranza dei cittadini verso gli autocrati svanisce rapidamente e il contratto sociale entra in crisi. Gaidar conclude affermando che una vera democrazia non è un dogma imposto dai Paesi Occidentali, ma una precondizione per uno stabile sviluppo della Russia.
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