“” Nel novembre
del 1764 i centottanta componenti del Parlamento di Parigi, seguendo l’esempio
del colleghi di Rouen, Besançon e Colmar, decidevano di espellere i Gesuiti. In
Francia gli eredi di sant’Ignazio erano 3500, possedevano centocinquanta
istituti e ottantacinque scuole dove si formavano i rampolli dell’aristocrazia
e della borghesia francese (…). La decisione di cacciarli era dovuta a
interessi economici. La guerra dei Sette anni aveva prosciugato l’erario e non
era bastato fondere tutto l’oro e l’argento con cui Luigi XIV aveva abbellito i
saloni della propria dimora, né vendere la collezione di pietre preziose che un
tempo avevano adornato i suoi abiti di seta. Per la sua impareggiabile
ricchezza la Compagnia di Gesù costituiva una specie di Stato nello Stato,
faceva gola a qui notabili indaffarati, inutilmente, a sanare un bilancio
pubblico disastroso. In un primo tempo Luigi XV non voleva convalidare il
decreto di espulsione, ma poi aveva ceduto alle pressioni dei parlamentari e
dei controllori delle Finanze. Non immaginava che una simile decisione avrebbe
segnato le sorti della monarchia. (…) Per il giovane Luigi Augusto (il futuro
Luigi XVI, ndr) l’episodio sembrava uno strano ricorso della Storia. Aveva
avuto modo di leggere che un fatto analogo era accaduto all’alba del Trecento,
quando lo sciagurato Filippo il Bello aveva sciolto l’ordine dei Templari e
messo al rogo il gran maestro Giacomo di Molay. Si narrava che quel cavaliere,
prima di morire avvolto dalle fiamme, avesse lanciato un anatema contro la
famiglia reale e il papa, cagionando loro gravi sciagure, perciò egli temeva
che anche i Gesuiti avrebbero potuto scagliare una maledizione contro i suoi
parenti; non si sbagliava.””
Antonio Spinosa, “Luigi XVI. L’ultimo
sole di Versailles”, pg. 28-29.
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