Il termine indica l’appropriazione di terra, per lo più da parte di soggetti
stranieri, in paesi dove non vi sono di titoli di proprietà sulla terra
storicamente coltivata (con tecniche arretrate) da contadini poveri in luoghi
poveri; il fenomeno ha avuto una accelerazione in coincidenza con l’aumento
generalizzato dei prezzi dei prodotti agricoli, a partire dal 2007. I dati sul
fenomeno sono scarsi: la Banca Mondiale stima che nel periodo 2007-2010 56
milioni di ettari siano stati oggetto di land grabbing (una superficie
superiore alla Spagna); per la National Academy of Sciences degli USA, le
appropriazioni sono state pari a 100 milioni di ettari; per l’ONG OXAM la terra
oggetto di land grabbing è di pari a 200 milioni di ettari; oltre i 2/3 della
terra in oggetto si trova in Africa, ed il LandMatrix Database segnala che, a luglio
2013, i 10 paesi in cui le appropriazioni sono state maggiori sono il Sud Sudan
(4,1 milioni di ettari), Papua New
Guinea (3,9 milioni), Indonesia (2,7 milioni), Congo (2,6 milioni),
Mozambico (2 milioni), Sudan (2 milioni), Etiopia (1,4 milioni), Sierra Leone
(1,4 milioni), Liberia (1,1 milioni), Madagascar (1 milioni). Un terzo delle
terre verrebbe usato per coltivare alimenti (esportati nel paese straniero del
nuovo proprietario), un terzo per agro combustibili, un terzo come foreste,
legno, fiori (principalmente per ottenere i c.d. crediti di anidride carbonica
per compensarne le emissioni nei paesi acquirenti). I prodotti agricoli più
coltivati sono la soia, la canna da zucchero, il mais, l’olio di palma. “Le
terre africane sono considerate una soluzione a basso costo dei problemi di
altri” secondo un rapporto redatto in una università inglese.
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