martedì 11 agosto 2015

Sogno, o son desto? La resistibile riduzione delle partecipate pubbliche.



La recente dichiarazione del presidente del consiglio con cui si enuncia l’obiettivo di ridurre le partecipazioni pubbliche a 1.000 non è nuova: la stessa dichiarazione “sfoltire e semplificare da 8.000 a 1.000”” fu fatta il 18 aprile 2014: siamo in presenza di auliche dichiarazioni, cui non segue l’azione. Che cosa è cambiato da allora, visto che di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia?

Detto in altri termini: la pressione sui conti pubblici, che spinge a ridurre la spesa (nella sua dimensione “improduttiva”) ha messo in moto qualche azione ed ha portato risultati concreti?

Riteniamo che nulla sia cambiato, e che anzi la situazione complessiva sia peggiorata: in questo articolo cerchiamo di spiegare il “perché”, il “come”, il “dove si è” (o meglio: non si è) nell’impervio percorso verso una pubblica amministrazione (P.A.) più efficiente e più coerente con i magri tempi che corrono.



Le partecipate pubbliche sono state indicate in 7.726 dal MEF (dato al 31.12.2012, ultimo disponibile). Secondo la stima -- più recente -- del Dipartimento delle Pari Opportunità (DPO) della Presidenza del Consiglio sono “oltre 10.000”, quindi il 30% in più di quanto indicato dal MEF, uno “scarto” nella misurazione che dàbene l’idea di quanto il fenomeno sia fuori controllo. Per confronto, la Francia (un paese a vocazione certamente statalista ed interventista in ambito economico) ne ha circa 1.000. Prendiamo come base di calcolo i dati del DPO: il 20% delle partecipate ha come unico azionista lo stato (nelle sue articolazioni: stato centrale ed enti territoriali), quindi circa 2.000 società; il 13% (all’incirca 1300) è costituito dalle cosiddette società strumentali, cioè le società che forniscono (quasi) esclusivamente beni e servizi all’ente partecipante -- torneremo in dettaglio su questa tipologia; il 42% (circa 4.200 società) sono società prive di rilevanza economica; il 23% (circa 2.300 società) forniscono beni e servizi di utilità economica, quali elettricità, acqua, gas, raccolta rifiuti, trasporto locale; il 22% (circa 2.200) sono società che operano in settori in regime di concorrenza.

Negli anni, molteplici sono stati gli studi e le proposte di riduzione della “mano pubblica” (ricordiamo, scusandoci con chi non sia qui citato, il lavoro della Commissione Giarda, di ampio respiro; da ultimo, il Programma del Commissario Cottarelli), e c’è stata pure qualche azione, come quella prevista dall’art 4 del dl 95/2012 (la “spending review” del governo Monti) che introduceva l’obbligo di privatizzazione e scioglimento delle società strumentali degli enti locali (sopra indicate, e stimate in 1.300 nel nostro paese), in particolare prevedendo la loro vendita o la loro liquidazione quando almeno il 90% del loro fatturato fosse nei confronti dell’amministrazione pubblica che le possiede, “a meno che non svolgano servizi di interesse generale o che per ragioni del contesto socio-economico non sia possibile un efficace ricorso al mercato” (condizione da valutare da parte dell’Antitrust).

Come è facile intuire, intorno all’inciso virgolettato si è scatenata la resistibile resistenza allo “sfoltimento” da parte degli enti territoriali, cui ha dato una mano essenziale la Corte Costituzionale, che con la sentenza 229/2013 (presidente Gallo, relatore Tesauro, per chi abbia buona memoria) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art 4 citato. La motivazione della sentenza è presto detta: secondo la Consulta lo Stato può limitare l’attività delle Regioni ponendo obiettivi di riequilibrio della spesa, ma non può prevedere in modo esaustivo strumenti e modalità per il perseguimento di tali obiettivi, cosa che l’art 4 del dl 95/2012 faceva, entrando nel dettaglio di “che cosa” e “come”, e così invadendo le competenze regionali.

Attenzione: l’articolo e la sentenza si riferiscono alle sole regioni a statuto ordinario; come i lettori potranno facilmente immaginare, le regioni a statuto speciale erano e sono“per definizione” fuori dall’ambito di applicazione del cassato articolo 4: nessuna revisione della spesa, se non “quando” e “se” così fosse previsto dai rispettivi Statuti.

Dopo la pronuncia della Consulta la norma resta peraltro applicabile (ma non applicata…) a Comuni e Province -- anche nella loro nuova veste -- delle Regioni ordinarie, poiché l’ordinamento degli enti locali rientra nelle competenze della normativa statale. Non contenta, verrebbe da aggiungere, la Corte Costituzionale, con la sentenza 236/2013 (presidente Gallo, relatore Napolitano: sempre per la cronaca) ha “salvato” enti, agenzie ed organismi comunque denominati che siano stati creati per svolgere, anche in via strumentale, le funzioni fondamentali degli enti territoriali. Sul punto si osservi come l’art. 9 del dl 95/2012 prevedesse che Regioni, Province e Comuni dovessero accorpare o sopprimere tali enti, agenzie ed organismi, in ogni caso tagliando la spesa di almeno il 20%, e che in caso di inadempienza vi fosse la soppressione automatica di tali enti e la nullità dei loro atti. Ai lettori non sfuggirà la sottile e perfida linea della resistenza ad ogni, anche modesta, riduzione degli “enti inutili od almeno ridondanti”, operata in modo reciproco e concertata fra i vari ordini e gradi della P.A.

Andando a ritroso come i gamberi (una pratica di lunga tradizione nazionale, peraltro), ci si imbatte nella legge 244/2007 che all’art. 3, comma 27, recita: “al fine di tutelare la concorrenza e il mercato (sic!), le <amministrazioni pubbliche> non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società. E’ sempre ammessa la costituzione di società che producono servizi di interesse generale e che forniscono servizi di committenza a livello regionale a supporto di enti senza scopo di lucro e di amministrazioni aggiudicatrici .. e l’assunzione di partecipazione in tali società da parte <di amministrazioni pubbliche>, nell’ambito dei rispettivi livelli di competenza”. La norma, nel suo far coesistere la rigidità del dettato normativo e la flessibilità compiacente della prassi amministrativa, è ancora in vigore ed avrebbe dovuto portare alla vendita/liquidazione di tali società entro il 31 dicembre 2014: siamo ad agosto 2015 e tutto tace sul fronte. Il perché è facilmente immaginabile: la norma non trova applicazione perché la valutazione delle condizioni indicate all’art 3, comma 27, è interamente lasciata alla amministrazione partecipante, che può opporsi, o non procedere, con una semplice “delibera motivata” dell’ “organo competente”.

A parziale -- molto parziale -- esimente, dobbiamo riconoscere che la spiegazione del proliferare di molte partecipate sta sovente nella volontà di aggirare il “patto di stabilità” che poteva (ed ancora può…) essere così evitato, poiché le società partecipate di Comuni e Province non erano e sono soggette al “patto”, applicabile solo agli enti territoriali (della ingloriosa fine della norma afferente le Regioni si è detto sopra).

In questo Bel Paese, espressione che sempre più suona come uno stonato ossimoro, ci si dibatte e ci si avviluppa  con le “micro-partecipate”: oltre 1.400 in cui la quota in mano al pubblico non raggiunge il 5%, 1.900 società in cui la quota pubblica è fra il 5% ed il 10%, 2.500 sono sotto il 20%;  non si comprende quali utilità esse possano rivestire per un sempre invocato “interesse pubblico”.

Infine: sentiamo parlare, per voce del ministro alla Semplificazione e alla Pubblica Amministrazione, di preparazione di un testo unico di semplificazione della disciplina della società partecipate con un respiro almeno decennale (forse già sapendo che per avviare l’analisi del fenomeno i tempi si misurano in decenni …), di “ricognizione” sulla natura e sulla struttura di tali partecipate, e via discettando, quando il fenomeno è stato analizzato in innumerevoli studi anche nel recente passato.

Al di là dei proclami, la questione resta sempre quella della volontà politica di intervenire drasticamente sul tema, volontà che nel governo Renzi sembra assai flebile. Invece c’è molto da fare e serve, se non il bazooka del rude ristrutturatore, almeno il cacciavite del mite operaio.


di Riccardo Puglisi e Corrado Griffa
PUBBLICATO SU LINKIESTA in data 11.8.2015

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