Un estratto di questo articolo è stato pubblicato nella rubrica #IlGraffio di AdviseOnlyBlog in data 19.8.2015.
Politica e finanza si concentrano su petrolio,
inflazione debito e tassi di interesse: farebbero bene e meglio ad occuparsi di
cibo?
Vi sono buone ragioni per occuparsene: l’aumento
della popolazione mondiale; il miglioramento dell’alimentazione per un numero
crescente di popolazione che causa un aumento della domanda di cibo “superiore”
(come la carne) in una situazione di limitate disponibilità di risorse
alimentari (a tecnologia attuale); il persistente livello di
sotto-alimentazione di 1/3 della popolazione mondiale (con i relativi problemi
e conseguenze, anche umanitarie); l’inefficienza delle modalità di produzione e
conservazione degli alimenti.
Tre quarti del
cibo consumato nel pianeta è fatto di riso, grano, mais; metà di tutto quanto
mangiano i 7 miliardi di esseri umani è rappresentato da riso. L’efficienza
produttiva e lo sfruttamento del terreno varia in modo considerevole fra paesi “avanzati”
(negli Stati Uniti a metà del secolo scorso 1 ettaro produceva 2 tonnellate di
cereali ed un contadino poteva lavorarne circa 25 con una produzione annua di
50 tonnellate; oggi, grazie a
miglioramenti nella tecnica e nell’irrigazione, la produttività consente di
lavorare 100 ettari con una produzione annua di 1.000 tonnellate per ogni
contadino) ed “arretrati” (nell’Africa sub-sahariana, 1 ettaro produce quasi
700 chili di cereali ed ogni contadino lavora in media 1 ettaro, producendo
quindi 700 chili annui). 1/3 della popolazione mondiale non ha cibo a
sufficienza, e gli sforzi per ridurne il numero sono stati largamente
infruttuosi, con un aumento della pressione demografica.
Il paese che ha fatto
il più significativo “balzo in avanti” è la Cina; se il suo sviluppo e la sua domanda di cibo mantenessero il ritmo
attuale, nel 2030 si accaparrerebbe il 70% della produzione mondiale di
frumento ed il 75% di quello della carne; oggi, sta già importando il 25% della
soia mondiale per nutrire i suoi 500 milioni di maiali ed i suoi 5.000 milioni
di polli. La Cina deve nutrire il 20% della popolazione mondiale disponendo
dell’8% della terra coltivabile mondiale; con lo sviluppo dell’industria e lo
sfruttamento intensivo dei terreni, ogni anno la Cina perde 1.000.000 di ettari
coltivabili e quantità enormi di acqua: ogni cinese dispone di 0,15 ettari,
ogni statunitense 1,5 ettari. “This is a big problem”.
Intimamente collegato al tema del cibo è il
tema dell’acqua, della sua disponibilità (alta in regioni a bassa densità
abitativa, bassa in quelle ad alta intensità abitativa), del suo cattivo utilizzo,
della sua qualità. (Sarà oggetto di un prossimo #IlGraffio, in cui ne esamineremo
gli aspetti economici).
Il fenomeno del “land grabbing” deve essere
inquadrato in questo scenario: la Banca Mondiale stima che nel periodo 2007-2010 56 milioni di
ettari siano stati oggetto di “land grabbing” (una superficie superiore alla
Spagna); per la National Academy of Sciences degli USA, le appropriazioni sono
state pari a 100 milioni di ettari; per l’ONG OXAM la terra oggetto di “land
grabbing” è pari a 200 milioni di ettari; oltre i 2/3 della terra in oggetto si
trova in Africa. Un terzo delle terre verrebbe usato per coltivare alimenti
(esportati nel paese straniero del nuovo proprietario), un terzo per agro
combustibili, un terzo come foreste, legno, fiori (principalmente per ottenere
i c.d. crediti di anidride carbonica per compensarne le emissioni nei paesi
acquirenti). I prodotti agricoli più coltivati sono la soia, la canna da
zucchero, il mais, l’olio di palma. In altri termini, le terre africane sono
considerate una soluzione a basso costo dei problemi di altri.
Per
contro, nel mondo è diffuso lo spreco di cibo, in proporzioni a lungo andare
insostenibili: secondo l’Institution of Mechanical Engineers del Regno Unito, la
produzione annua di cibo è di 4 miliardi di tonnellate, ma a causa di sistemi
di raccolta, immagazzinamento e trasporto carenti, sprechi del mercato e dei
consumatori, tra il 30 ed il 50 per cento dell’intera produzione alimentare
mondiale, una quantità compresa fra 1,2 e 2 miliardi di tonnellate, non viene
consumata. Grandi quantità di terra, energia, fertilizzanti, acqua vengono
sprecati e persi durante la produzione di prodotti alimentari, che finiscono
nei rifiuti.
Le ragioni variano in base alle regioni: nei paesi dell’Altro
Mondo (quelli che vengono definiti arretrati e/o poveri) mancano
infrastrutture, sistemi di stoccaggio e refrigerazione, trasporti adeguati. In
Cina la percentuale di riso persa è il 45% del raccolto, in Vietnam è l’80%;
nei paesi “ricchi” il cibo viene “dimenticato” in frigoriferi e banchi dei
supermercati. Studi fatti dalla FAO
indicano che in Europa e negli Stati Uniti il consumatore medio spreca 100
chili di cibo l’anno, contro i 10 chili del consumatore asiatico; i consumatori
dei paesi ricchi sprecano ogni anno 100 milioni di tonnellate di cibo
(superiore all’intera produzione dell’Africa Nera) ed in particolare si stima
che negli USA il 40% del cibo venga gettato.
La spazzatura è la metafora del
mondo di sopra, che spreca, e di quello di sotto, che è affamato.
Il
business del cibo (agricoltura, produzione) costituisce il 6% dell’economia
mondiale, ma il 43% della popolazione mondiale attiva, circa 1,4 miliardi di
persone, è fatto di agricoltori. Demografia, peso economico, necessità reale
sono molto lontani e sembra non riescano a trovare un decente punto di incontro
ed equilibrio.
Chi ha terra coltivabile di buona qualità e disponibilità di
acqua avrà cibo a sufficienza per nutrirsi; il valore di questa “buona terra”
potrebbe aumentare in modo significativo.
Cibo (ed acqua) saranno sempre più al
centro di politica e finanza.
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