domenica 21 settembre 2014

Tuona, un finimondo della notte fonda, nera. Era il 1991, ma potrebbe essere il 2014.


“” Tuona, piove un finimondo come in quella notte lontana di Belgrado. Leggo alla rinfusa i quaderni balcanici fino alla primavera del 1991, vigilia della guerra. Col senno di poi, questa fase di incubazione degli eventi si mostra straordinariamente più interessante di quella esplosiva finale. Soprattutto per certe analogie. C’è l’avvento di un tecnico, Ante Markovic, al governo federale, con l’avvio di un programma di austerità che blocca l’inflazione, rimette in circolo i risparmi e fa ben sperare le banche internazionali: ma proprio quando il risultato sembra a portata di mano, tutto affonda in un clima di rissosità, di aggressione politica permanente. Si moltiplicano scioperi e raduni, l’inaffidabilità del paese aumenta, le banche mondiali ammoniscono. E soprattutto riemerge, sotto forme maligne e sempre meno controllabili, quell’orgoglio nazionale che il precedente regime aveva bollato come fascista e represso troppo a lungo. Le masse disorientate serrano i ranghi, cercano un capo. Ed ecco emergere, nel bel mezzo della crisi istituzionale, politica ed economica del paese, un uomo – Milosevic – che fiuta magistralmente questo nuovo bisogno di leadership accumulatosi come una forza esplosiva. C’è un vuoto da riempire e lui coglie l’occasione al volo. La sua scalata alla politica parte dal controllo dei media: è un potere strategico che difenderà fino all’ultimo, fino a mandare i carri armati, alla vigilia della guerra, contro gli studenti in marcia sulla sua tv. E’ così che sulla stampa e nell’etere esplode un linguaggio completamente nuovo, aggressivo, spesso basato sulla demonizzazione dell’antagonista, sulla lettura “etnica” di una crisi che invece è politica, economica e sociale, sulla prefigurazione di complotti provenienti da poteri forti esterni al paese, su un vittimismo nazionale talvolta spinto fino al martirologio, sugli attacchi alla Costituzione e alle più alte cariche istituzionali, e soprattutto sull’esaltazione della “gente”, del narod, di un popolo che sta sopra tutto, anche sopra i poteri rappresentativi dello Stato. Cerco ancora fra i quaderni belgradesi: ormai non è più un viaggio nel preludio della crisi jugoslava, ma nella fisiologia globale delle crisi europee. Leggo: lo scontro politico diventa tribale, gli uni si legittimano grazie alle delegittimazioni lanciate dagli altri e viceversa. Trovo il fatalismo della gente, la sua voglia di sognare, la sua teledipendenza, il suo senso di insicurezza e il bisogno di appartenenza. E ancora, l’irrazionalità che dilaga persino nei mercati e le Cassandre che gridano nel vuoto; ecco il fallimento degli intellettuali progressisti, incapaci di decifrare i segnali di pericolo e di scendere in campo in prima persona. Dietro a tutto, un tessuto sociale disintegrato, deculturato, dunque permeabile a qualsiasi tipo di veleno. La gente si chiude in una forma di autismo nazionale, con l’immaginario collettivo che si stacca dalla realtà, vive in un suo mondo virtuale, trae quasi alimento dalla disapprovazione del mondo esterno, cresce nell’autocontemplazione delle proprie risse politiche, ormai trasformate in spettacolo che invade ogni spazio radio e tv.””

Paolo Rumiz, Maschere per un massacro, pg. 48-49, 1996.

Nessun commento:

Posta un commento