“” Tuona, piove un finimondo come in quella notte lontana di
Belgrado. Leggo alla rinfusa i quaderni balcanici fino alla primavera
del 1991, vigilia della guerra. Col senno di poi, questa fase di
incubazione degli eventi si mostra straordinariamente più interessante
di quella esplosiva finale. Soprattutto per certe analogie. C’è
l’avvento di un tecnico, Ante Markovic, al governo federale, con l’avvio
di un programma di austerità che blocca l’inflazione, rimette in
circolo i risparmi e fa ben sperare le banche internazionali: ma proprio
quando il risultato sembra a portata di mano, tutto affonda in un clima
di rissosità, di aggressione politica permanente. Si moltiplicano
scioperi e raduni, l’inaffidabilità del paese aumenta, le banche
mondiali ammoniscono. E soprattutto riemerge, sotto forme maligne e
sempre meno controllabili, quell’orgoglio nazionale che il precedente
regime aveva bollato come fascista e represso troppo a lungo. Le masse
disorientate serrano i ranghi, cercano un capo. Ed ecco emergere, nel
bel mezzo della crisi istituzionale, politica ed economica del paese, un
uomo – Milosevic – che fiuta magistralmente questo nuovo bisogno di
leadership accumulatosi come una forza esplosiva. C’è un vuoto da
riempire e lui coglie l’occasione al volo. La sua scalata alla politica
parte dal controllo dei media: è un potere strategico che difenderà fino
all’ultimo, fino a mandare i carri armati, alla vigilia della guerra,
contro gli studenti in marcia sulla sua tv. E’ così che sulla stampa e
nell’etere esplode un linguaggio completamente nuovo, aggressivo, spesso
basato sulla demonizzazione dell’antagonista, sulla lettura “etnica” di
una crisi che invece è politica, economica e sociale, sulla
prefigurazione di complotti provenienti da poteri forti esterni al
paese, su un vittimismo nazionale talvolta spinto fino al martirologio,
sugli attacchi alla Costituzione e alle più alte cariche istituzionali, e
soprattutto sull’esaltazione della “gente”, del
narod, di un
popolo che sta sopra tutto, anche sopra i poteri rappresentativi dello
Stato. Cerco ancora fra i quaderni belgradesi: ormai non è più un
viaggio nel preludio della crisi jugoslava, ma nella fisiologia globale
delle crisi europee. Leggo: lo scontro politico diventa tribale, gli uni
si legittimano grazie alle delegittimazioni lanciate dagli altri e
viceversa. Trovo il fatalismo della gente, la sua voglia di sognare, la
sua teledipendenza, il suo senso di insicurezza e il bisogno di
appartenenza. E ancora, l’irrazionalità che dilaga persino nei mercati e
le Cassandre che gridano nel vuoto; ecco il fallimento degli
intellettuali progressisti, incapaci di decifrare i segnali di pericolo e
di scendere in campo in prima persona. Dietro a tutto, un tessuto
sociale disintegrato, deculturato, dunque permeabile a qualsiasi tipo di
veleno. La gente si chiude in una forma di autismo nazionale, con
l’immaginario collettivo che si stacca dalla realtà, vive in un suo
mondo virtuale, trae quasi alimento dalla disapprovazione del mondo
esterno, cresce nell’autocontemplazione delle proprie risse politiche,
ormai trasformate in spettacolo che invade ogni spazio radio e tv.””
Paolo Rumiz, Maschere per un massacro, pg. 48-49, 1996.
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