In “la Costituzione della Repubblica italiana illustrata con i lavori
preparatori” (a cura di V. Falzone – F. Palermo – F. Cosentino), Oscar
Mondadori, 1976 (edizione ormai fuori commercio), vengono riportate le
osservazioni e conclusioni dei lavori preparatori, sugli argomenti
oggetto degli articoli della Carta costituzionale.
Le discussioni furono
di alto livello, ed il lettore potrà apprezzare le diverse visioni
proposte e rappresentate dai partecipanti alle discussioni di voto,
improntate ad una concretezza che appare, a distanza di decenni, perduta
nel dibattito politico attuale.
Non è una mera rivisitazione, a distanza di 70 anni; rileggere parole,
meditare sulle idee e sulle visioni di una società futura (quella che
nel 1946 si poteva immaginare, e che per larghi aspetti non si è
realizzata) serve a riformulare le domande: quale scuola vogliamo? quale
difesa della proprietà vogliamo? quale modello di impresa vogliamo? Per
andare alle fondamenta del nostro pensiero e — attraverso il confronto —
riformulare dove è opportuno riformulare, proporre dove è opportuno
proporre.
Art. 33 della Costituzione Italiana:
L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.
La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi.
Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.
La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali
che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro
studenti un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di
scuole statali.
(omissis).
Ci soffermiamo in particolare sul comma terzo che prevede il diritto
di istituire scuole private, riportando dal testo originale:
“”Le parole finali “senza oneri per lo Stato” furono proposte dagli on.
Corbino, Marchesi, Preti, Pacciardi, Mario Rodinò, Codignola, Bernin, e
altri. L’on. Gronchi obiettò che “è estremamente inopportuno precludere
per via costituzionale allo Stato ogni possibilità di venire in aiuto a
istituzioni le quali possono concorrere a finalità di così alta
importanza sociale”; e fece tra l’altro l’esempio di scuole che siano
istituite da Comuni, quindi non statali (A.C., pag 3377). Ma, anche a
nome degli altri firmatari l’emendamento, l’on. Corbino chiarì la
portata dell’emendamento: “Noi non diciamo che lo Stato non potrà mai
intervenire a favore degli istituti; diciamo solo che nessun istituto
privato potrà sorgere con il diritto di avere aiuti da parte dello
Stato”. L’on. Gronchi non parve convinto e si chiese quale sorte sarebbe
riservata alle scuole professionali che oggi non sono di Stato e che
pur vivono col concorso dello Stato. Un altro firmatario
dell’emendamento, l’on. Codignola, chiarì nuovamente che “con questa
aggiunta non è vero che si venga a impedire qualsiasi aiuto dello Stato
alle scuole professionali; si stabilisce solo che non esiste un diritto
costituzionale a chiedere quell’aiuto”. L’Assemblea approvò la formula
“senza oneri per lo Stato”, alla quale pertanto va attribuito il
significato precisato dai proponenti (A.C., pagg. 3377-8). Va inoltre
osservato che codesta formula e la sua interpretazione autentica si
riferiscono a tutte le scuole non statali, parificate e non parificate.
Durante la discussione si parlò infatti indiscriminatamente delle une e
delle altre, nonché delle scuole istituite da Comuni e da altri enti e
delle scuole professionali.””
Art. 38 della Costituzione Italiana:
Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per
vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale.
I lavoratori hanno diritto che siamo preveduti ed assicurati mezzi
adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia,
invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.
Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale.
Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato.
L’assistenza privata è libera.
(già art. 34 del progetto, discusso e approvato nella seduta del 10 maggio)
Ci soffermiamo in particolare sui comma primo e secondo, riportando dal testo originale:
“”Il testo definitivo, che si discosta sensibilmente dal progetto, ebbe
una complessa elaborazione a causa delle molteplici proposte di coloro
che si preoccuparono soprattutto di porre le basi per una sostanziale
riforma dell’attuale ordinamento previdenziale (n.d.r.: vigente nel
1946); ma tali proposte non avevano contenuto costituzionale, sicché il
relatore Ghidini, nel respingerle, osservò che la Costituzione aveva
inteso “con la formulazione dell’art. 38 di mettere in luce la
differenza che corre fra assistenza e previdenza nonché di stabilire il
campo entro il quale si devono attuare le due provvidenze”, e di
“stabilire chi siano i titolari sia del diritto all’assistenza e alla
previdenza, sia dell’obbligo correlativo”.
L’on. Mazzei propose la soppressione delle parole “al mantenimento e”,
osservando che lo Stato “deve assumere solo gli impegni che può
effettivamente mantenere” senza riconoscere ancora un diritto del
cittadino “che, oltre tutto, sarebbe uno stranissimo diritto, il diritto
ad essere mantenuti dallo Stato!”; ma il relatore Ghidini non accettò
la proposta (poi respinta in sede di votazione) e affermò che (A.C.
pagg. 3855-6) “la Costituzione ha creduto di porre questo obbligo (dello
Stato) del mantenimento, il quale potrà essere ridotto anche al puro
necessario, appunto perche si tratta del diritto alla vita, del diritto
fondamentale, di un bisogno insopprimibile”.
La formula adottata dalla 3. Sc. Suonava così: “Ogni cittadino che, a
motivo dell’età, dello stato fisico o mentale o di contingenze di
carattere generale, si trovi nell’impossibilità di lavorare, ha diritto
di ottenere dalla collettività mezzi adeguati di assistenza”; l’on.
Togni a tal proposito affermò di “non aver voluto affrontare il problema
molto dibattuto se l’assistenza e la previdenza debbano essere a carico
dello Stato o della produzione ovvero a carico dell’uno e dell’altra”,
perché a suo avviso la questione riveste un “carattere secondario che
dovrà essere comunque precisato dalla legge speciale; essenziale è
l’affermazione che spetta alla collettività di tutelare, ecc.” (3. Sc.,
pag. 21). La 1.Sc., a sua volta, aveva deliberato che “Chiunque è
inabile o … senza sua colpa è incapace di lavoro ha diritto ad avere la
sua esistenza assicurata dallo Stato”. Dal coordinamento delle due
formule risultò il testo definitivo del primo comma.
Pertanto, ove si consideri anche l’ultimo comma: “L’assistenza privata è
libera”, accettato dalla Commissione perché – affermò il relatore
Ghidini – “non pensiamo che lo Stato debba avere dell’assistenza un
monopolio” (A. C., pag. 3837) e contenuto nel testo concordato proposto
dai Gruppi più importanti dell’Assemblea, si deduce un obbligo generale
dello Stato a provvedere al mantenimento oltre che all’assistenza dei
cittadini inabili al lavoro e sprovvisti dei mezzi necessari alla vita.
Nel secondo comma rispetto al progetto furono abolite le parole “in
ragione del lavoro che prestano”, perché, secondo il proponente on.
Lanconi, “il legislatore futuro abbia una libertà più ampia e possa
adottare i criteri che gli appariranno più adatti alla situazione e più
efficaci”, e per non costringere la futura legislazione in materia di
previdenza e assicurazione sociale a seguire soltanto i criteri “di
assistenza mutualistica” che sono oggi in vigore. L’on. De Maria propose
di aggiungere a “malattia” la specificazione “generica o
professionale”, ma non vi insistette dopo la dichiarazione del relatore
che “la semplice parola malattia è ampia e comprende tutti i casi, sia
le malattie generiche sia quelle professionali”; mentre l’Assemblea
respinse l’emendamento aggiuntivo dell’on. Merighi: “e in caso di morte
la famiglia ha diritto alla pensione” dopo che l’on. Laconi ebbe
dichiarato di non accettarlo – pur condividendone lo spirito – perché
non si trattava di materia costituzionale. Va rilevato che l’on. Laconi
parlò sempre in questa sede a nome dei firmatari del testo concordato,
accettato dalla Commissione, e cioè dei deputati appartenenti ai Gruppi
parlamentari più numerosi dell’Assemblea.
(…)
Il quarto comma subì le critiche serrate dei sostenitori della tesi che
lo Stato non debba accollarsi il gravissimo onere dell’assistenza e
della previdenza sociale. Fu rilevato che: la complessità
dell’organizzazione e l’insufficienza dell’attuale ordinamento (Camangi)
impongono che la Costituzione non cristallizzi la situazione quale è
oggi; non bisogna creare una assolutamente illusoria fiducia nello Stato
(Zuccarini), ché così facendo non si fa opera di elevazione sociale
delle classi operaie; bisogna affidare agli stessi lavoratori la
gestione degli istituti previdenziali. Questi ed altri argomenti furono
controbattuti in sede di dichiarazioni di voto sull’emendamento Camangi
che suonava così: “a tali provvidenze provvedono, con l’eventuale
concorso dello Stato, organi ed istituti gestiti o controllati dai
lavoratori interessati”. L’on. Di Vittorio affermò di non poter
accettare “un concetto privatistico di assicurazione”, in quanto è
necessario in questo campo “un concetto di Stato perché il concetto di
previdenza non può essere disgiunto dal concetto di solidarietà fra
tutti i lavoratori”; l’on. Corbino dichiarò di non potere votare la
formula Camangi “in parte per le ragioni espresse dall’on. Di Vittorio,
ma soprattutto perché ci troviamo di fronte a cifre dell’ordine di
grandezza tale che non si può ammettere che lo Stato si debba
disinteressare di questa gestione”; e infine l’on. Dominedò intese “che
la formula costituzionale lascia aperta, in sede di futuro sviluppo
legislativo, la disciplina di una possibile partecipazione dei
lavoratori”. L’emendamento Camangi non fu approvato (a.C., pag. 3842).
Dell’ultimo comma si è già detto; solo v’è da aggiungere che,
nell’interpretazione degli onorevoli Laconi e Cingolani, i quali
parlarono a nome dei presentatori della formula approvata
dall’Assemblea, il termine assistenza, in questo caso, comprende anche
il concetto di previdenza.””
Art. 41 della Costituzione Italiana:
L’iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.
La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività
economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a
fini sociali.
(Già artt. 37 e 39 del progetto, discusso ed approvato nella seduta del 13 maggio)
Riportiamo il testo originale:
“”I due articoli del progetto da cui deriva la formula definitiva
avevano in comune l’obiettivo di armonizzare l’attività economica
privata con il fine pubblico: la sola differenza stava in ciò che,
mentre l’art. 39 aveva per oggetto un fine negativo, cioè impedire che
l’attività economica privata potesse recare danno all’utile pubblico,
l’art. 37 mirava al coordinamento dell’attività privata con il fine
pubblico, quindi aveva una finalità positiva.
Con la formulazione definitiva, affermata nel primo comma la libertà
dell’iniziativa e dell’impresa privata, sono stati posti in luce, nel
secondo comma, i limiti, per così dire, passivi, di principi e criteri
che l’iniziativa deve rispettare, e nel terzo comma i limiti attivi,
cioè quelli che la legge può imporre ai fini del coordinamento (A.C.,
pag 3936). L’impresa privata, in altri termini, costituisce la regola,
in quanto non leda l’interesse pubblico, e in tal caso è garantita dalla
Costituzione (3. Sc., pag. 110). La formulazione dei primi due commi
non fu contestata e l’Assemblea la approvò quasi senza discussione.
Al terzo comma, l’on. Arata propose l’inserzione della parola “piani”
dopo controlli, precisando che la sua proposta aveva non “lo scopo di
porre all’Assemblea una perentoria alternativa fra il sistema liberale e
quello socialista, fra la iniziativa economica privata e la coercizione
burocratica di Stato, fra capitalismo nella sua forma pura e
pianificazione integrale”, ma soltanto il fine di disciplinare “quegli
interventi o interventismi di Stato, che oggi campeggiano in tutti i
Paesi” (A.C., pag. 3934); l’on. Taviani osservò di non vedere i motivi
per i quali la parola “piani” dovesse essere inserita nel testo
costituzionale dal momento che nell’espressione “i controlli” si prevede
già un intervento dello Stato, “e non è detto che questo intervento
debba essere sempre fatalmente empirico” (A.C., pag. 3935). Si addivenne
a una formula concordata – poi definitivamente approvata – accettata a
nome della Commissione dall’on. Ruini, il quale osservò che “l’idea base
è quella del coordinamento, in quanto nessuna economia può ormai
prescindere da interventi statali; il comunismo puro e il liberalismo
puro sono due ipotesi e schemi astratti che non si riscontrano mai nella
realtà… La realtà è sempre una sintesi, una risultante della vita
economica” (A.C., pag. 3936).
L’on. Einaudi propose di aggiungere il seguente comma: “La legge non è
strumento di formazione di monopoli economici; e ove questi esistano li
sottopone al pubblico controllo a mezzo di amministrazione pubblica
delegata o diretta”. Il proponente osservò che il male più profondo
della società presente non è la mancanza di programmi e di piani, ma è
invece l’esistenza di monopoli, danno supremo dell’economia moderna, cha
dà alti prezzi, produzione ridotta e quindi disoccupazione (A.C., pag.
3939). L’on. Ruini, per la Commissione, osservò fra l’altro che la
Costituzione già prevede la nazionalizzazione dei monopoli (art. 43); e
l’emendamento, posto in votazione, non fu approvato.””
Art. 42 della Costituzione Italiana:
La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.
La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne
determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di
assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.
La proprietà privata può essere, nei casi preveduti dalla legge, e salvo
indennizzo, espropriata per motivi d’interesse generale.
La legge stabilisce le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità.
(Già art. 38 del progetto, discusso e approvato nella seduta del 13 maggio).
Riportiamo il testo originale:
“”Si discusse molto in sottocommissione sulla formulazione del primo
comma e i testi approvati dalla 1. e dalla 3. Sc. suonavano
rispettivamente così: “I beni economici di consumo e i mezzi di
produzione possono essere in proprietà di cooperative, di istituzioni e
dello Stato”; “I beni economici possono essere oggetto di proprietà
privata, cooperativistica e collettiva”; e dal coordinamento dei due
testi si arrivò alla formula definitiva del primo comma.
L’on. Bibolotti propose: “La proprietà è pubblica. Collettiva e
privata”, ma il relatore Ghidini, non accettando l’aggiunta osservò che
il termine “collettiva” dal punto di vista giuridico è improprio, in
quanto “coglie l’aspetto economico dell’istituto della proprietà
piuttosto che l’aspetto giuridico”; e alla proposta dello stesso
deputato di aggiungere che i beni economici possono essere di proprietà
anche delle cooperative, obiettò che “non si può ancora dire che la
cooperativa rappresenti un tertium genus nel campo del diritto di
proprietà. E’ bensì un qualcosa di intermedio fra la proprietà pubblica e
quella privata sotto il profilo economico ma non sotto il profilo
giuridico” (A.C., pag. 3951).
Riconosciuto il diritto di proprietà, la Costituzione, vincolando il
legislatore a dettare norme che garantiscano la proprietà privata, ha
posto il problema dei limiti entro i quali il diritto stesso deve avere
una forma e un contenuto. Il primo comma, preso a sé, potrebbe far
supporre che si sia rimasti sulla base individualistica, che invece è
superata dall’affermazione che “la società ha il diritto di regolare i
rapporti allo scopo di garantire quelle che sono le funzioni del diritto
di proprietà e non soltanto la funzione personale, ma anche quella
sociale, in quanto è evidente che la proprietà privata non ha il solo
scopo della garanzia della libertà del singolo, ma ha anche quello di
servire al bene della società” (3. Sc., pag 68). “L’interesse sociale è
preminente sull’interesse individuale e particolare”: con questa
motivazione l’on. Ghidini, per la Commissione, non accettò un
emendamento dell’on. Colitto il quale voleva che si dicesse al secondo
comma: “anche allo scopo di assicurarne la funzione sociale”. E lo
stesso on. Ghidini si dichiarò nettamente contrario a tutti gli
emendamenti nei quali il concetto di “limite” si riferiva “in modo
chiaro, espresso e preciso all’uso e al godimento, mentre invece il
testo lo riferisce alla proprietà”. L’on. Corbino fra gli altri aveva
proposto un emendamento in questo senso, intendendo “spostare il
significato della parola limiti, che nel testo proposto dalla
Commissione si dovrebbe riferire allo scopo di assicurare la funzione
sociale della proprietà” (A.C., pagg. 3946 e 3951).
Quanto al terzo comma molto si discusse in sottocommissione sul
significato da dare alla dizione “salvo indennizzo”, e vi fu chi
propose, in quella sede e poi in Assemblea, l’aggiunta di una
specificazione (equo o giusto). Nella 3. Sc. L’on. Taviani, relatore,
sostenne la tesi che non dovesse parlarsi di “equo” indennizzo
(intendendosi con l’aggettivo equo una misura dell’indennizzo.
Proporzionata al valore economico del bene al momento dell’esproprio),
che altrimenti “si impedirebbe di fare la riforma agraria… Il termine
indennizzo senza l’aggettivo equo ha un senso preciso che si riallaccia a
quanto venne praticato nelle riforme agrarie dell’altro dopo guerra,
calcolando il valore dei terreni nella moneta pre-bellica, senza tener
conto della svalutazione (3. Sc., pag. 126). In Assemblea, l’on.
Perlingieri tornò sull’argomento proponendo la formula “contro giusto
indennizzo”. Giustificò l’emendamento con la preoccupazione che in
commissione s’era “proposto di abolire la parola giusto (equo) in quanto
la proprietà dovrebbe essere indennizzata con moneta riportata al suo
valore pre-bellico”, e, aggiunse che non avrebbe insistito
sull’emendamento qualora la Commissione gli avesse dato assicurazione
che la soppressione di questa specificazione non avrebbe avuto il valore
che invece le si era attribuito in sottocommissione. L’on. Ghidini, per
la Commissione, prima della votazione, precisò: “V’è stata su questo
attributo giusto, prima in seno alla 3. Sc., dopo in sede di
coordinamento e poi di commissione plenaria, una lunga discussione.
Abbiamo eliminato l’aggettivo giusto perché il concetto di giusto è
implicito nel concetto di indennizzo. Anche la più recente
giurisprudenza è di questo avviso: l’indennizzo, perché sia tale, non
può essere ingiusto. Siamo d’accordo che la Costituzione non è un
telegramma per doverci risparmiare le parole; ma il superfluo lo
dobbiamo eliminare” (A.C., pag 3950). L’on. Perlingieri si dichiarò
soddisfatto e ritirò la sua proposta; e l’Assemblea votò il testo del
progetto con l’interpretazione datane dalla Commissione.
Al quarto comma furono proposti emendamenti i quali, parlando di
successione legittima e testamentaria, non facevano cenno alcuno dei
diritti dello Stato. L’on. Grassi propose anzi la soppressione di tutto
il comma osservando: in via generale di non comprendere i motivi per cui
la Costituzione debba occuparsi di uno solo dei modi di acquisto della
proprietà – la successione mortis causa – quando è stato già detto che
la legge “determina i modi di acquisto della proprietà”; e in
particolare mettendo in luce i pericoli che si avrebbero “se il fisco
dovesse diventare coerede nelle successioni” entrando nei rapporti
familiari più stretti: “lo Stato si mantenga come terzo, richieda dei
prelievi sul valore dell’asse ereditario, ma non come compartecipe”
(A.C., pag. 3949).
L’on. Ghidini, rispondendo alle varie obiezioni, osservò: “per quanto
riguarda i diritti dello Stato … debbo dire che è verissimo che nella
legislazione civile attuale, come in quella precedente, il concetto era
contemplato in duplice forma: sotto la forma dello Stato legittimario
(nel caso che non vi siano parenti sino al 6° grado), come sotto il
profilo della tassa di successione (che non è una vera e propria tassa
ma è piuttosto un prelievo sul capitale). Con questa disposizione la
Commissione ha voluto lasciare adito alla possibilità di innovazioni
anche nel campo del diritto successorio, specialmente per quanto
riguarda lo Stato. La Commissione non ignora che vi è una tendenza
diretta ad aumentare i diritti dello Stato sulle eredità, e il meno che
potevamo fare era di lasciare aperta la strada ad eventuali
innovazioni”.
L’Assemblea non approvò la soppressione della frase “e i diritti dello
Stato sulle eredità”, accogliendo quindi il principio (dichiarazione di
voto dell’on. Taviani a nome della maggioranza del suo Gruppo) che “la
parte che lo Stato preleva sotto forma di imposta di successione ha uno
scopo sociale oltre che fiscale”.
Art. 43 della Costituzione Italiana:
Ai fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o
trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad
enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese
o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici
essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano
carattere di preminente interesse generale.
(Già art. 40 del progetto, discusso e approvato nella seduta del 13 maggio).
Riportiamo il testo originale:
“”La sostituzione delle parole: “Per coordinare le attività economiche”
che figuravano nel progetto, con le altre “Ai fini di utilità generale”
si deve a una proposta dell’on. Taviani; il relatore Ghidini non accettò
l’emendamento perché “l’articolo pone già la condizione dell’interesse
generale”, sicché ritenne superflua la variante; ma l’on. Taviani
insistette perché, se l’osservazione del relatore poteva essere
“comprensibile dal punto di vista formale, non lo era invece dal punto
di vista sostanziale, perché il preminente interesse generale cui si
riferisce la proposizione finale dell’articolo riguarda le imprese che
si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a
situazioni di monopolio e non riguarda lo scopo dell’intervento dello
Stato per la socializzazione” (A.C., pag. 3960). L’emendamento Taviani,
posto in votazione, fu approvato dall’Assemblea.
Nel progetto, inoltre, era detto: ”riserva originariamente o
trasferisce”; l’on. Bosco Lucarelli, proponendo la modifica “può
riservare originariamente o trasferire”, osservò che l’affermazione non
deve avere un carattere “così rigido da esprimersi in un senso
assolutamente obbligatorio”, soprattutto perché in momenti di grave
crisi economica come l’attuale “molte imprese, che versano in stato
fallimentare, dovrebbero bussare alla porta dello Stato per vedersi
asservite, e riverserebbero le loro passività sullo Stato medesimo”
(A.C., pag. 3958). Proposte analoghe furono anche presentate da altri, e
a tutti l’on. Ghidini, per la Commissione, rispose che l’articolo “fa
riferimento alla legge e giusto nell’interesse superiore della Nazione”
(A.C., pag. 3959). Ma l’emendamento, malgrado queste precisazioni del
relatore, posto in votazione, fu approvato.
L’on. Corbino chiese la soppressione delle parole “o a comunità di
lavoratori o di utenti”, perché “espropriare dei privati per dare ad
altri privati non dovrebbe corrispondere allo spirito della disposizione
contenuta nell’articolo” (A.C., pag. 3959). Il relatore Ghidini obiettò
ce “si tratta di comunità, di associazioni cioè; in sostanza di
qualcosa che non è ancora un ente pubblico e ha caratteri che lo possono
anche rendere perlomeno simile agli enti pubblici. Certo è che gli
interessi di una comunità sono interessi diversi di quelli di una
singola persona privata” (A.C., pag. 3960). L’emendamento, posto in
votazione, non fu approvato.
Vi fu anche una proposta dell’on. Colitto di sostituire alle parole
“carattere di preminente interesse generale” le altre “non confacenti
all’interesse nazionale”, ma la modifica incontro l’opposizione del
relatore, il quale non l’accettò: 1°) perché l’interesse superiore della
collettività può consigliare la socializzazione indipendentemente da
qualsiasi altra considerazione particolare; 2°) per una ragione di
carattere pratico, che cioè l’accertamento che una determinata impresa
non sia confacente all’interesse generale richiede una indagine sempre
difficile, talora impossibile (A.C., pag. 3959).
Lo stesso on. Colitto propose che gli indennizzi fossero stabiliti con
legge, ma non vi insistette dopo che l’on. Ghidini osservò che “la legge
dovrà stabilire soltanto i criteri in base ai quali si debba procedere
alla determinazione degli indennizzi. Lo stabilire gli indennizzi sarà
piuttosto compito o dell’autorità giudiziaria o dell’autorità
amministrativa, volta per volta”.
Art. 44 della Costituzione Italiana:
Al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire
equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla
proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione secondo le
regioni e le zone agrarie, promuove ed impone la bonifica delle terre,
la trasformazione del latifondo e la ricostituzione delle unità
produttive; aiuta la piccola e la medi proprietà.
La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane
(Già art. 41 del progetto, discusso e approvato nella seduta del 13 maggio).
Riportiamo il testo originale:
“”I principi contenuti in questo articolo in un certo senso sono già
tracciati dal precedente art. 42 sulla proprietà, per cui già in sede di
sottocommissione si parlò dell’opportunità o meno di dedicare un
apposito articolo della Costituzione al problema della riforma agraria.
Tuttavia, come rilevò l’on. Fanfani (3. Sc., pag. 140), non fare un
articolo in questo senso sarebbe stato forse “opportuno da un punto di
vista strettamente giuridico, ma sarebbe (stato) un errore da quello
psicologico e politico”, in quanto il problema agrario è uno dei più
sentiti nel momento attuale.
L’on. Jacometti avrebbe voluto sopprimere l’enunciazione introduttiva:
“al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di
stabilire equi rapporti sociali”, perché esclusivamente a carattere
finalistico; ma l’on. Ghidini, per la Commissione, si dichiarò contrario
all’emendamento, in quanto la formula iniziale, pur avendo soltanto
carattere finalistico, “accentua la funzione sociale del diritto di
proprietà”.
Due furono gli argomenti più dibattuti: i limiti dell’estensione della proprietà terriera e il latifondo.
Circa i limiti si sostenne da molti che non sempre la grande proprietà
terriera è dannosa, anzi spesso è utile. L’on. Corbino osservò: “Cosa
vuol dire limite di estensione? Si devono riferire alla terra o al
proprietario? Un limite alla terra potrebbe porre ostacoli gravissimi al
progresso agrario; fissare poi dei limiti per il proprietario
significherebbe fermare tutto il mercato della proprietà terriera”
(A.C., pag. 3968); e l’on. Badini Confalonieri (A.C., pag. 3971): “I
limiti della proprietà sono già fissati nell’art. 42” e non è il caso di
“fare inutili ripetizioni”. Ma soprattutto l’on. Einaudi richiamò
l’attenzione della Commissione e dell’Assemblea sulla necessità di
considerare bene il problema dei limiti dell’estensione della proprietà,
in quanto la questione fondamentale è quella “dell’adattamento delle
dimensioni dell’impresa agricola alle mutevoli condizioni delle diverse
zone agricole italiane”. In Italia si va dalle forme di coltivazione
estensiva a forme di coltivazione la più intensiva; a volte è una
ricchezza notevole anche una proprietà estesa semplicemente su un
ettaro, perché “su un ettaro a fiori (in Liguria) vive una popolazione
prospera, laddove in altre condizioni morirebbe di stenti una persona
sola” (A.C., pag. 3971). A questo concetto aderì anche l’on. Segni; il
relatore Ghidini, considerato che “potrebbe nascere il dubbio che la
Costituzione (come già si è verificato in altre costituzioni, di Romania
e di Jugoslavia) si proponga la fissazione a priori dei limiti di
estensione della proprietà, al fine di rendere più chiaro il concetto”
modificò il testo in questo senso: “fissa limiti alla sua estensione
appropriati alle varie regioni e zone agricole”. La formula fu così
votata dall’Assemblea e soltanto in sede di revisione formale e
letteraria modificata in quella definitiva.
L’on. Corbino propose la soppressione della parola privata, in quanto a
suo avviso “qualsiasi limite e qualsiasi obbligo e vincolo (avrebbero
dovuto) considerarsi estesi anche alle proprietà demaniali o comunali”,
in vista soprattutto dell’autonomia regionale (A.C., pag. 3967); ma
l’on. Ghidini non accettò l’emendamento osservando che “il pericolo che
si smarrisca il senso della funzione sociale riflette piuttosto la
proprietà privata”, senza pensare che è ovvio che non siano fissati
limiti alla proprietà pubblica (A.C., pag. 3976). La proposta fu
respinta dall’Assemblea.
Sul problema del latifondo le proposte furono molteplici e soprattutto
fu criticata la formula del progetto “abolisce il latifondo”, che
contiene “un concetto che non è ragionevole” (Einaudi). Basta guardare
le statistiche, aggiunse l’on. Einaudi, per rendersi persuasi della
prudenza di non chiedere una abolizione che sarebbe assurda e nociva e
per chiedere invece una trasformazione a seconda delle esigenze e delle
colture delle diverse zone agrarie (A.C., pag. 3969); e per tale motivo
propose la formula “la legge impone e promuove la bonifica delle terre e
la trasformazione del latifondo”. Per gli stessi motivi l’on. Jacometti
propose: “attua la trasformazione del latifondo”, aggiungendo però (e
in ciò consiste la differenza sostanziale fra i due emendamenti) “e la
sua assegnazioni ai lavoratori e alle loro associazioni”, e in sede di
votazione dichiarò che, se fosse stata votata la formula “promuove la
trasformazione” senza l’aggiunta da lui proposta, il concetto sarebbe
stato sminuito. L’on. Ghidini, per la Commissione, condivise le
osservazioni dell’on. Einaudi per quanto, osservò, quando si dice
“abolisce” si dice anche “trasforma” e viceversa; ma dichiarò di non
accettare l’aggiunta proposta dall’on. Jacometti, perché “al modo come
sarà regolata la trasformazione del latifondo dovrà pensarci il
legislatore futuro, adattandola alle condizioni economiche locali e ad
altri elementi che è difficile oggi prevedere con sicurezza” (A.C., pag.
3976).
Il Gruppo comunista, in sede di votazione, insistette sulla formula
originaria “abolisce”; e l’on. Di Vittorio disse che tra i due termini
vi è una “differenza sostanziale, poiché il latifondo non è soltanto
concetto di estensione di terreno e non è soltanto concetto di terreno
coltivato male o non coltivato affatto; esprime, invece, un sistema che
rende possibile l’una e l’altra cosa, l’una dipendente dall’altra, cioè
che questi terreni sono coltivati male e sono espressione di
arretratezza della nostra agricoltura. Quindi bisogna rompere il sistema
e creare nuovi rapporti sociali, nuovi rapporti di proprietà come
presupposti essenziali per la trasformazione fondiaria” (A.C., pag.
3982). La primitiva formula del progetto, posta in votazione, non fu
accolta dall’Assemblea, la quale votò invece la formulazione Einaudi.
L’aggiunta “e la ricostituzione delle unità produttive” si deve a una
proposta dell’on. Jacometti, il quale si preoccupò delle conseguenze
deleterie dovute in talune zone all’eccessivo spezzettamento della
proprietà agraria e rilevò che “per instaurare una agricoltura veramente
razionale è necessario, attraverso la legge, favorire la permuta e
quindi la costituzione dell’unità colturale e produttiva”, così come
avviene in altri Paesi, e in Isvizzera in particolar modo, dove vi è una
legge che impedisce il frazionamento della terra per eredità oltre
certi limiti (A.C., pag. 3963). La proposta fu accettata dal relatore,
il quale ne riconobbe “l’opportunità e la giustizia”, e votata
dall’Assemblea.
Un’altra modificazione proposta dall’on. Einaudi fu la sostituzione
della frase “aiuta la piccola e media proprietà” con l’altra “a
incremento e a elevazione del ceto dei piccoli e medi proprietari”. La
trasformazione del latifondo deve servire, osservò il proponente, non ad
aiutare la piccola e media proprietà ma all’elevazione dei ceti dei
piccoli e medi proprietari, ché in Italia non si sente affatto il
bisogno di aumentare di numero i piccoli e medi proprietari (A.C., pag.
3970). L’on. Gronchi, a nome del suo Gruppo, si dichiarò contrario alla
formula Einaudi perché limitativa e perché non avrebbe escluso la
“conduzione associata”; e l’Assemblea non l’approvò.
Il secondo comma fu proposto dall’on. Gortani e, benché l’on. Ghidini,
per la Commissione, fosse dell’avviso che la materia dovesse essere
regolata dalla legge ordinaria, l’Assemblea lo accettò respingendo nel
contempo l’aggiunta proposta dall’on. Ayroldi: “e delle zone aride”.””
Art. 45 della Costituzione Italiana:
La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a
carattere di mutualità e senza fini di speculazione privata. La legge ne
promuove e favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura,
con gli opportuni controlli, il carattere e le finalità.
La legge provvede alla tutela e allo sviluppo dell’artigianato.
(Già art. 42 del progetto, discusso e approvato nella seduta del 14 maggio).
Riportiamo il testo originale:
“”L’articolo non diede luogo a lunghe dissertazioni in quanto tutti
furono nel complesso concordi nell’ammetterne l’opportunità. Il solo
punto discusso fu se si dovesse sanzionare o meno il controllo sulle
cooperative.
L’on. Cimenti sostenne che la cooperazione deve “essere sottratta
all’ingerenza diretta dello Stato, seppure abbisogna di un’accurata
vigilanza, attraverso la periodica, obbligatoria revisione, eseguita
dalle stesse associazioni che inquadrano e assistono le cooperative, a
ciò abilitate dallo Stato” (A.C., pag. 3990). L’on. Carmagnola,
proponendo la formula: “la legge stabilisce le norme per assicurarne i
caratteri e le finalità”, si dichiarò d’accordo “nel ritenere che la
cooperazione debba sottostare a certe garanzie perché possa ottenere
quegli aiuti che lo Stato deve dare”, ma osservò che la Costituzione
deve soltanto affermare principi, lasciando al legislatore il compito di
disciplinare tutta la materia (A. C., pag. 3992).
L’emendamento, da cui poi derivò il testo definitivo, fu proposto
dall’on. Canevari. La cooperazione, affermò il proponente, non è
un’associazione politica né professionale, ma è un’associazione
economica a fini sociali; basata sul principio della mutualità e
inspirata ad alte finalità di libertà umana (funzione sociale della
cooperazione), costituisce un mezzo efficace di difesa dei produttori e
dei consumatori dalla speculazione privata. Lo Stato deve aiutarne con
tutti i mezzi la creazione e gli sviluppi successivi mediante un
controllo da esercitarsi direttamente o per mandato. Infatti, non si può
chiedere l’intervento dello Stato, se contemporaneamente allo Stato non
è consentito di esercitare il dovuto controllo; d’altronde è quello che
avviene in quasi tutti i Paesi in cui la cooperazione ha assunto un
grande sviluppo, dalla Gran Bretagna alla Francia e al Portogallo (A.C.,
pag. 3993-6).
Favorevole al controllo si dichiarò pure l’on. Bibolotti, per
distinguere le ver cooperative da quelle “spurie”, osservando che “il
controllo è il pensiero assillante di ogni buon cooperatore” (A. C.,
pag. 3997); mentre l’on. Dominedò, pur non essendo contrario in linea di
principio ai controlli, disse che, in concreto, “questi controlli
potranno più o meno allontanarsi dagli schemi attualmente vigenti. La
legge stabilirà, per quanto riguarda i controlli di legalità, eventuali
ritocchi o innovazioni al sistema oggi affidato dal Codice civile ai
tribunali”,mentre per il controllo di merito “sorge un delicato problema
che la legge potrà o dovrà risolvere in aderenza alle reali esigenze
della materia … e non si può oggi in sede costituzionale ipotecare il
domani raffigurando il controllo come una funzione di Stato” (A.C., pag.
4000).
L’on. Ghidini, a nome della Commissione, rilevò che con la vigilanza non
si intende affatto suggerire provvedimenti di polizia, ma “solamente
ovviare al pericolo che delle cooperative che hanno soltanto la veste di
cooperative e sono invece società di speculatori possano godere di
vantaggi e favori che a loro non spettano”. Il termine vigilanza “è ben
differente dalla tutela perché, mentre questa si estrinseca in una
attività positiva, la prima si manifesta piuttosto in una attività
negativa. Nel caso della tutela è più facile un intervento dello Stato
che limiti la libertà dell’impresa, mentre nel caso della vigilanza lo
Stato si limiterà alla difesa del suo diritto, impedendo che le
agevolazioni e i favori destinati alla vera cooperazione vadano a
beneficio di coloro che non li meritano” (A.C., pag. 4002). L’on.
Ghidini arrivò alla conclusione che il testo Canevari, pur precisando
meglio i caratteri della cooperazione, non modificava sostanzialmente il
testo della Commissione. L’Assemblea, votando la formula Canevari
(salvo limitate modificazioni di forma) intese, quindi, dare alle parole
“opportuni controlli” il significato di una vigilanza da esercitarsi
nei modi e nei termini precisati dal relatore.
Il secondo comma si deve a un emendamento dell’on. Gortani all’art. 46
(e poi qui trasferito in sede di coordinamento), l’affermazione,
nell’intenzione del proponente, ha lo scopo di aiutare l’artigianato —
oggi insidiato dal prepotere della macchina e dall’invadente e potente
organizzazione industriale moderna – nella produzione, nella sua
organizzazione economica e commerciale e nella libera espansione. Nella
produzione, mediante l’insegnamento tecnico-professionale e con
direttive tecnico-artistiche per indirizzare la produzione verso le
esigenze dei mercati interno ed estero e dell’industria del forestiero;
nell’organizzazione economica e commerciale, mediante il coordinamento
delle singole iniziative, l’organizzazione delle vendite all’interno e
all’estero e le facilitazioni creditizie; nella libera espansione,
mediante opportuni sgravi fiscali e la concessione di energia a basso
prezzo (A.C., pag. 4015). La proposta fu accolta con viva simpatia
dall’Assemblea e votata con dichiarazioni favorevoli da parte di tutti i
Gruppi parlamentari.””
Art. 46 della Costituzione Italiana:
Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con
le esigenze della produzione, la repubblica riconosce il diritto dei
lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi,
alla gestione delle aziende.
(Già art. 43 del progetto, discusso e approvato nella seduta del 14 maggio).
Riportiamo il testo originale:
“”La caratteristica fondamentale del processo formativo dell’articolo
sta nel passaggio da termine “partecipazione” alla gestione (cfr. il
progetto) all’altro: “collaborazione” alla gestione. Il relatore Ghidini
disse che “la parola gestione vuole avere il significato che
convenzionalmente le si attribuisce”; e con il rinvio alla legge dei
modi e dei limiti di questa partecipazione, la Commissione intese di non
pregiudicarne il carattere, e cioè se si dovesse trattare di
compartecipazione consultiva oppure deliberativa, classista oppure
collaborativa, partecipazione all’amministrazione oppure alla direzione,
ecc. (A.C., pag. 4018).
L’on. Marina, proponendo la formula: “attuare la più efficace
collaborazione fra il lavoro e il capitale”, si dichiarò nettamente
contrario ai consigli di gestione, sotto qualsiasi forma, in quanto
questi organismi “anziché essere strumenti propulsivi e migliorativi
della produzione, sono quasi sempre ragione di inceppo e spesse volte di
disordine, specialmente quando … (sono adoperati) come arma politica
per raggiungere finalità che spesso nulla hanno a che vedere con il buon
andamento della produzione” (A.C., pag. 4004); e aggiunse che il
consiglio di gestione verrebbe a menomare la figura del dirigente
responsabile dell’azienda, dato che la sua azione di comando sarebbe
continuamente inceppata o ritardata dai pareri spesso discordi dei vari
membri del consiglio stesso. Per l’on. Nobili Tito Oro il consiglio di
gestione è il mezzo atto a trasformare l’operaio da “cieco strumento di
lavoro materiale a … elemento consapevole del processo della produzione,
desideroso di migliorare l’industria nella collaborazione intelligente,
volenterosa e assidua con le dirigenze” (A.C., pag. 4011).
La formula definitiva si deve ad un emendamento Gronchi, accolto nella
sua interezza dall’Assemblea. Con essa, come precisò il proponente, si
tende a elevare il lavoro da strumento a collaboratore della produzione,
tenendo però realisticamente conto della progressività attraverso la
quale trasformazioni del genere si devono attuare. Senza questa
progressività, l’inserzione del lavoro nei posti direttivi della vita
economica si tradurrebbe in un pericolo per gli stessi lavoratori.
L’articolo contiene due concetti: il primo si rifà esplicitamente alle
“esigenze della produzione” alla quale deve essere subordinata
l’elevazione economica e sociale del lavoro, perché “l’imperativo
categorico … in ogni tipo di sistema economico è quello di produrre di
più affinché vi siano più utili … da distribuire”; il secondo concetto è
quello della “collaborazione”, la quale vuol far “salvi taluni principi
senza dei quali non vi è ordinata e perciò feconda attività produttiva:
primo fra tutti l’unità di comando nell’azienda produttiva”. Questo non
presuppone – aggiunse l’on. Gronchi – né un paternalismo anacronistico,
né una subordinazione che menomi il prestigio del lavoro; ma indica una
certa posizione gerarchica di compiti e di responsabilità della quale
sarebbe assurdo e contrario agli interessi stessi dei lavoratori non
tener conto (A.C., pag. 4017).
Vi fu chi pose (Camangi e Puoti) il problema della partecipazione degli
operai agli utili dell’azienda come strumento idoneo alla loro
elevazione economica e sociale. Il relatore Ghidini obiettò che la
Commissione intendeva lasciare ampia possibilità al legislatore futuro
di fissare quelle attribuzioni e quelle funzioni che potessero sembrare
più opportune in relazione al tempo e all’economia del Paese (A.C., pag.
4018). L’onorevole Gronchi, nel votare contro questi emendamenti,
intese mantenere all’articolo “il carattere di un principio da attuare
nelle varie riforme che dovranno essere condizionate dal momento in cui
si realizzeranno”, mentre l’on. Einaudi, entrando nel merito, si
dichiarò contrario al principio contenuto nell’emendamento “perché tutto
il movimento operaio del secolo scorso è indirizzato contro la
partecipazione degli operai ai profitti … (la quale) presenta dei
pericoli per gli operai e per la collettività. Troppi pericoli corre
questa a causa del prepotere del monopoli: non occorre incoraggiare in
aggiunta gli operai ad accordarsi con gli imprenditori per taglieggiare
la collettività” (A.C., pag. 4020). Gli emendamenti, posti in votazione,
non furono approvati.””
Art. 47 della Costituzione Italiana:
La Repubblica incoraggia e tutela il risparmio in tutte le sue forme; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito.
Favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà della
abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto
investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese.
(Già art. 44 del progetto, discusso e approvato nella seduta del 19 maggio).
Riportiamo il testo originale:
“”Al termine della discussione in Assemblea il presidente della
Commissione on. Ruini osservò che s’era fatto una specie “di esame di
coscienza … in un momento così grave come questo in cui (il Paese) si
accinge a darsi una nuova Costituzione” e avvertì che la Carta
costituzionale rischiava di diventare “un memorandum e un elenco”,
talché non sarebbe stato alieno dall’acconsentire alla soppressione
dell’articolo in esame (A.C., pag. 4039). L’aver conservato l’articolo
stesso dimostra la preoccupazione dei costituenti di porre una remora di
natura costituzionale ai gravi disastri monetari che il paese, nel giro
di trent’anni, ha dovuto subire alla fine di due guerre mondiali:
preoccupazione che balza evidente da tutti gli interventi nella
discussione.
La formula definitiva (salvo modifiche formali) si deve all’on. Zerbi il
quale, come tutti gli altri, si fece eco della “tragedia di tutta la
nostra generazione di piccoli risparmiatori che negli ultimi trent’anni o
poco più ha veduto il potere di acquisto della lira ridotto ad un
centoquarantesimo della lira del 1913” (A.C., pag. 4025). Illustrando
particolarmente la proposta, l’on. Zerbi aggiunse che la formula è
“esemplificativa” e indica fra i mezzi più idonei l’accesso del
risparmio alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta
coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario. A
proposito di quest’ultima forma di investimento si potrebbe obiettare –
osservò il proponente – che la legislazione attuale non vi pone alcuna
remora e che “le borse valori spalancano indiscriminatamente le proprie
porte a chiunque abbia denaro in cerca di impiego”; tuttavia è
indiscutibile che in concreto fattori di varia natura hanno fin qui
operato nel senso di convogliare il risparmio popolare verso
investimenti a reddito fisso, “ossia verso quegli impieghi che già la
prima inflazione aveva largamente falcidiato, e che questa seconda ha
ormai pressoché annichilito” (A.C., pag. 3027). La remora, se non in
norme legislative, si è avuta invece nella scarsa competenza del singolo
risparmiatore a valutare serenamente i rischi tecnici ed economici
connessi all’investimento azionario e alla limitata dimensione dei
singoli risparmi personali o familiari che non consente di assorbire un
pacchetto azionario costituito da impieghi opportunamente ripartiti fra i
vari settori produttivi per trarne un dividendo medio sufficientemente
remunerativo. Come rimediarvi? Seguendo l’esempio inglese del’investment
trust, “organismo di concentrazione del risparmio, capace di attuare
accorti assortimenti di investimento e di rischi azionari ed
obbligazionari, pronto a mutare tempestivamente gli investimenti
medesimi in rapporto alle mutabili tendenze del mercato monetario e
finanziario”. Questo metodo potrebbe utilmente essere diffuso in Italia
sia nella forma tradizionale, sia nella forma di grandi cooperative di
investimento, le quali in varia guisa potrebbero coordinare le finalità
caratteristiche dell’investment trust con quella di holding popolare
oppure di impiegati e operai risparmiatori (A.C., pag. 4027).
La formula Zerbi conteneva anche la locuzione “investimenti reali” alla
quale l’on. Ruini non ritenne particolarmente di accedere e che lo
stesso proponente dichiarò di abbandonare; inoltre l’on. Ruini non
accettando l’emendamento, disse che le tre forme di investimento
indicate costituivano una limitazione della norma. Ma l’on. Zerbi, in
sede di dichiarazione di voto, che l’elencazione, nell’intenzione sua e
degli altri firmatari della proposta, “non è limitativa bensì
esemplificativa delle più consuete forme di investimento popolare oppure
di quelle forme alle quali particolarmente si pensa” (A.C., pag. 4044).
L’Assemblea votandola intese quindi accettare questa interpretazione.
L’on. Einaudi propose l’aggiunta: “a tal fine è garantito il rispetto
della clausola oro”, appunto per garantire i creditori contro le
svalutazioni monetarie; l’on. Ruini, pur non disconoscendo la portata
dell’affermazione, osservò che la clausola dovrebbe aver valore fra lo
Stato e i privati e fra i privati. Ora “possono avvenire frane e
sconvolgimenti superiori ad ogni volontà. Lo ha esperimentato l’America
di Roosevelt. Vi sono casi nei quali lo Stato non può mantenere i suoi
impegni e allora come si fa a imporre il rispetto della clausola negli
impegni privati?” (A.C., pag. 4041); e disse di non poter accettare
l’emendamento. Il proponente ribatté osservando che il suo emendamento
era “permissivo e non obbligatorio”; e, quanto alla impossibilità da
parte dello Stato di mantenere fede alla clausola, dichiarò che “una
affermazione lealmente esplicita da parte dello Stato (in questo senso) è
cosa che fa onore al debitore e non turba affatto il suo credito”
(A.C., pag. 4045). L’emendamento, posto in votazione, non fu approvato.
Vi furono altre proposte minori o non accettate dall’Assemblea, fra le
altre quella dell’on. Persico: “Ogni impegno dello Stato verso i suoi
creditori è inviolabile”, che riecheggia una disposizione dello Statuto
albertino e proposta con gli stessi intendimenti dell’emendamento
Einaudi sulla clausola oro. L’on. Ruini non l’accettò; posta in
votazione, non fu approvata dall’Assemblea.””
Nessun commento:
Posta un commento