“” Come tutte le buone amministrazioni coloniali, i francesi
mantennero una documentazione impeccabile. Negli archivi nazionali di
Dakar si può ancora leggere ogni dettaglio su tutti i casi di epidemie
scoppiate in Africa occidentale: febbre gialla in Senegal, malaria in
Guinea, lebbra in Costa d’Avorio. Bollettini sanitari, leggi sanitarie,
missioni sanitarie: la sanità, sembrerebbe, era la vera ossessione dei
francesi. E perché non avrebbe dovuto esserlo? Bisognava pur trovare un
modo per tener sotto controllo queste malattie. Come disse Sir Robert
William Boyce nel 1910, la questione della presenza europea ai tropici
si riduceva in sostanza alla seguente alternativa: “O le zanzare o
l’uomo”. “Il futuro dell’imperialismo” per citare le parole di John L.
Todd “stava sul vetrino di un microscopio”. Ma i progressi fondamentali
non sarebbero stati compiuti nei pulitissimi laboratori delle università
e delle compagnie farmaceutiche occidentali. (…) non era certo una
fantasia immaginarsi uomini di scienza che si addentravano nella
giungla. I ricercatori che si occupavano di malattie tropicali aprirono
laboratori nelle più remote colonie dell’Africa (…). Qui si
sperimentavano vaccini su cavie animali: su ottantadue gatti quello per
la dissenteria, su undici cani quello per il tetano. Altri laboratori
studiavano il colera, la malaria, la rabbia e il vaiolo. (…) L’impero
ispirò un’intera generazione di innovatori europei nel campo della
medicina. (…) questi progressi, e altri ancora, concentrati nel periodo
che va dagli anni Ottanta del’Ottocento fino agli anni Venti del
Novecento, ebbero un’importanza cruciale per tenere in vita gli europei
ai tropici, e quindi anche per la sopravvivenza dell’intero progetto
coloniale. L’Africa e l’Asia erano diventate giganteschi laboratori per
la medicina occidentale. E quanto più la ricerca aveva successo, con
l’invenzione di nuovi e più efficaci rimedi (…), tanto maggiormente
potevano espandersi gli imperi occidentali e, insieme a essi, il supremo
beneficio di una vita più lunga.””
(Niall Ferguson, Occidente, pgg. 200-201)
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