“”Alle 12:37 di sabato 5 febbraio 1994 una bomba di mortaio sparata
dalle colline colpisce in pieno la piazza del mercato nel cuore della
vecchia Sarajevo. È un macello: muoiono sessantanove civili, oltre
duecento sono feriti. Il mondo è scosso dalle immagini del sangue; i
politici, per la prima volta, dicono basta. Karadzic nega ogni
responsabilità, accusa i musulmani di aver sparato su se stessi per
attirare la solidarietà internazionale. Più tardi, dirà che è stata la
polizia segreta bosniaca a costruire la scena con dei morti presi in
prestito dalla morgue dell’ospedale. Il diniego dà subito i suoi frutti.
Nonostante in quelle settimane Sarajevo sia costantemente sotto il
fuoco dell’artiglieria serba e i crateri freschi delle bombe da mortaio
siano ovunque, l’Onu – determinata a evitare a ogni costo l’intervento
della Nato – decide di aprire un’inchiesta. Si sa che i mortai, quando
sparano sporadicamente, non sono armi precise. I colpi cadono
assolutamente a caso, dunque è impossibile pensare che un singolo colpo
abbia potuto colpire deliberatamente mirato sulla piazza del mercato. Ma
egualmente, per quindici giorni senza sosta, il generale Michael Rose,
capo delle truppe Onu in Bosnia, lavora con la commissione d’inchiesta
per sviscerare ogni possibile pista alternativa. Osserva la giornalista
Laura Silber del “Financial Times”: “Se ci fosse stata anche una
briciola di evidenza che la strage del mercato era da addebitare ai
bosniaci, il mondo l’avrebbe saputo”. Determinata a evitare un raid
della Nato che irriterebbe i russi, Londra approfitta dell’inchiesta per
intessere una frenetica trattativa e arrivare ad un cessate il fuoco
concordato. La Nato scalpita, l’incompatibilità con l’Onu esplode
apertamente.. Karadzic scende a più miti consigli, ma solo per
intervento di Eltsin. Un anno e mezzo dopo, un’altra bomba di mortaio
cade nel centro di Sarajevo e fa strage. È il 29 agosto del 1995. Per la
prima volta, improvvisamente, i caschi blu giungono a conclusioni
rapidissime sull’accertamento delle responsabilità. Dopo poche ore
emettono il seguente comunicato: “Esaminati i risultati dell’inchiesta
condotta dagli esperti militari, il comandante generale dell’Unprofor,
generale Smith, ha concluso che, al di là di ogni ragionevole dubbio, la
bomba di mortaio da 120 millimetri che ieri ha distrutto, tra morti e
feriti, la vita di più di ceno cittadini di Sarajevo è stata lanciata
dalle posizioni serbe”. La notte stessa i jet della Nato hanno dal
comando Onu disco verde per bombardare le postazioni serbo-bosniache
attorno alla città. È una svolta storica, per la prima volta l’Alleanza
atlantica dispiega in Europa tutta la forza della sua deterrenza
militare. In quelle ore, come d’incanto, Onu, Nato, Stati Uniti
d’America, tutti escono dalla palude dei dubbi in cui per quattro annui
si sono lambiccati davanti ai massacri. Di colpo, l’intervento militare
esterno cessa di essere un tabù; persino Londra e Parigi, notoriamente,
morbide con la Serbia, si dichiarano favorevoli agli attacchi
missilistici americani. Addirittura Mosca, tradizionale alleata di
Belgrado, dà all’operazione il suo silenzio-assenso. All’improvviso,
come per una parola d’ordine che attraversa silenziosamente giornali,
segreterie politiche e ministeri degli Esteri, la parola “Sarajevo” non
evoca più conflitti planetari; bombardare la Bosnia serba non significa
più terza guerra mondiale in vista, non vuol dire più l’orso russo alle
porte, non comporta più il rischio di missili serbi sull’Italia o la
paura di attentati. Persino il tremebondo inviato dell’Onu, Akashi, che
per anni non ha avuto il coraggio di pronunciare per la capitale
bosniaca nemmeno la parola “assedio”, diventa coraggioso e determinato
come un leone. Ogni remora cade, e, dopo anni di sangue versato, il
mondo scopre l’ovvietà: che la diplomazia senza deterrente è nulla e che
nei Balcani conta solo la forza. Che cos’è accaduto? È accaduto che la
guerra ha raggiunto da sola il suo limite di esaurimento fisiologico.
Non è solo che il conflitto, coinvolgendo l’opinione pubblica americana
alla vigilia delle presidenziali, ha smesso di essere un problema estero
per diventare in fatto di politica interna. È che dopo quattro anni di
razzie si è arrivati al fondo del barile, non è rimasto più niente da
grattare. Banche di Stato, cambisti d’alto bordo, multinazionali del
crimine, uffici studi delle grandi società, la mafia jugoslava e Cosa
Nostra in Italia: in quei giorni anche le pietre sanno che nei Balcani
non c’è più niente da rubare e che a quel punto la guerra può finire,
per lasciare spazio a un altro business, quello della ricostruzione.
Solamente a questo punto, e non prima, l’uso delle maniere forti è
apparso alle grandi potenze una strada percorribile. È come dire che la
guerra ha seguito bioritmi indipendenti dai nostri sdegni, da nostri
missili e dalle nostre diplomazie, e che la pace di Dayton è arrivata
solo al momento giusto. Essa ha avuto successo non perché ha bloccato la
logica demenziale dei contendenti, ma perché – al contrario – l’ha
aiutata a dispiegarsi meglio e a esaurirsi, velocizzando i combattimenti
e gli scambi di popolazioni, cioè senza tenere in minimo conto, ancora
una volta, i destini della gente. Il resto sono specchietti per le
allodole. Nell’agosto del ’95 tutto cambia perché è Belgrado la prima a
voler chiudere la partita. La voglia di chiudere in fretta vi si respira
nell’aria. I giornali mettono il silenziatore a ogni protesta
nazionalistica, riducono al minimo le notizie sui bombardamenti Nato e
sulla rotta di Knin. Mentre i fratelli serbi delle Krajine arrivano a
decine di migliaia, affranti, alle porte di Belgrado in cerca di un
tetto e di un pezzo di pane, il capitano Arkan – il capo delle milizie
paramilitari cantato come il dio Marte in persona – se ne sta nella sua
villa miliardaria di Dedinje, nel quartiere dei vip belgradesi e della
nomenclatura, a nuotare in piscina con la sua nuova, bellissima moglie, e
a bere limonate. Non sta più sul campo della morte, a Glina o Gospic,
dove non c’è più nulla da rapinare. Improvvisamente, dopo quattro anni
di guerra feroce e trattative estenuanti, i confini tra Serbia e Croazia
possono tornare senza problemi quelli del 1991. Che senso ha avuto
tutto il sangue versato in nome della patria? Ma quale patria, quale
odio ancestrale. Intascato il bottino, conclusi i trasferimenti di
popolazioni, si può tornare amici come prima. Il caos è utile finché
rende, poi può tornare l’ordine. E allora, abbiamo assistito solo a una
mostruosa commedia? A una farsa, a una rappresentazione della guerra?
Dietro ai tanti enigmi c’è stato davvero il nulla, solo il cinismo di un
affare economico condiviso o tollerato dal mondo?””
Paolo Rumiz, Maschere per un massacro, pg. 176-177-178-179, 1996.
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