“” E’ un fatto che nei conflitti si ruba meglio: il caos favorisce i
ladri, il sangue mimetizza le loro azioni. Ma la guerra ha un altro
vantaggio: depenalizza la rapina. Se rubare è un reato, derubare il
nemico è atto patriottico. Accade in tutte le guerre. Ma nessuna guerra
come questa ha reso tanto ricche e forti delle oligarchie. Le stesse
che, nel caso jugoslavo, avevano portato il paese nella più nera
bancarotta. Dopo quarant’anni di dissipazioni, di perverse
triangolazioni fra banche, industrie e segreterie politiche, queste
lobby onnipotenti sapevano di non poter sopravvivere a una transizione
pacifica verso la democrazia e il mercato. Per queste consorterie di
potere la guerra era l’unica strada per impedire la resa dei conti che
nel 1989 aveva abbattuto il comunismo in Europa, l’unica strada per
bloccare la caduta di un sistema trasformato in mafia dall’ibernazione
dell’alternanza politica. Esse l’hanno dunque deliberatamente cercata e
costruita. Di tutti i conflitti, quello etnico era il più facilmente
realizzabile nel crogiolo jugoslavo e quello che meglio si prestata a
questi scopi di potere. Per risvegliare il demone, sono state immesse
nell’organismo sociale dosi massicce di zizzania, che hanno trasformato
in antagonismo nazionale tutte le spinte preesistenti: spinte che (…) in
prevalenza non erano etniche, ma sociali, economiche, culturali,
criminali. L’operazione si è rivelata facilissima in considerazione del
controllo monopolistico che il potere esercitava si tv, radio e
giornali. Ce n’è abbastanza per toglierci dalla testa che questa guerra
non ci riguarda e non è stata un fatto europeo. Le analogie fra guerra e
Tangentopoli sono impressionanti. Se le tensioni separatiste e
nazionali furono al tempo stesso una risposta alla corruzione e un suo
sottoprodotto, la guerra può esserne definita il prodotto finale. Come
la Tangentopoli jugoslava fu il privilegio di pochi garantito dalla
licenza di furto offerta ai molti, così la guerra fu l’accumulazione
criminale di alcuni coperta dall’opportunità di saccheggio concessa a
tutti in nome della patria, e anche dal silenzio di chi, con la guerra,
vedeva cadere su di sé il peso della colpa collettiva. In tempo di pace
la parte malata del paese si era limitata a vivere alle spalle di quella
sana. Quando il parassitismo ha superato il limite di sopportazione ed è
stato smascherato – nel 1987 la scoperta dei primi scandali diede
l’effimera illusione che la politica jugoslava si moralizzasse –, allora
la parte malata ha risolto le cose semplicemente divorando quella sana.
Solo al termine dell’operazione il paese ha dato i primi segni di
stanchezza bellica. (..) non abbiamo assistito a una guerra vera, e
tantomeno a una guerra etnica. E’ ben vero che dopo quattro anni l’ex
Jugoslavia si è ritrovata con un certo numero di musulmani, servi e
croati in meno. Ma c’è un’altra verità, a mio parere assai più pesante:
in Bosnia, Serbia e in parte anche in Croazia, la borghesia produttiva e
intellettuale è stata espulsa, e le sue ricchezze sono passate nelle
mani di pochi. Accanto alla pulizia etnica c’è stata una pulizia
sociale, dimenticata nonostante la sua drammatica evidenza. Con essa, il
potere ha distrutto la classe dirigente che avrebbe potuto
soppiantarla.””
Paolo Rumiz, Maschere per un massacro, pg. 173-174-175, 1996.
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