giovedì 3 settembre 2015

“”sovereign nations don’t go broke””, ovvero gli stati non falliscono: ma fanno di peggio, vanno in “default”.





Un estratto di questo articolo è stato pubblicato nella rubrica #IlGraffio su AdviseOnlyBlog in data 3.9.2015.


Quando uno stato non riesce più a ripagare i suoi debiti, spesso contratti con finanziatori esteri, dichiara tale sua incapacità (chiamata “default”); con tale dichiarazione, si avviano negoziazioni per la ristrutturazione del debito fra il paese debitore ed i finanziatori (che si riuniscono in un “comitato”), assistiti dai rispettivi consulenti; con il “default”, il paese non ha più accesso ai mercati finanziari per raccogliere nuovo debito (almeno sino alla definizione della ristrutturazione) né ai prestiti del Fondo Monetario Internazionale (FMI).


La ristrutturazione è il procedimento con cui il debito viene modificato (attraverso “swap”) nelle sue condizioni essenziali: 
(a) riduzione del suo ammontare, ridotto attraverso la rinuncia parziale, spesso sostanziale, al credito da parte dei finanziatori;   
(b) maggiore durata residua del debito, spesso portata a lunghissima scadenza (e.g., 20-30 anni);   
(c) riduzione degli interessi applicati.


Mentre il “default” sul debito domestico (sottoscritto dai cittadini dello stato) è regolato dalla legge locale, il debito estero è regolato in modi difformi, portando a casi di default sempre complessi. Alcuni esempi del passato: negli anni Ottanta il debito estero di molti paesi latino-americani venne ristrutturato (con perdite in conto capitale del 30-50% sul valore nominale) e convertito in debito a lunghissimo termine denominato in dollari e garantito dal governo USA (i famosi “Brady bond”); l’Argentina è andata in “default” 3 volte dal 1980 (cui si aggiunge il “default tecnico” del luglio 2014), e nei 215 anni a far tempo dal 1800 è stata in “default” per ben 80 anni complessivi; il Venezuela ha il record (che potrebbe presto battere) di 11 casi di “default” dal 1800. Nella lista dei possibili prossimi “default”, accanto al Venezuela, potrebbe esserci l’Ucraina se il paese non raggiungerà un accordo con i suoi creditori (possibile ma difficile, visto che la Russia è il singolo creditore più importante con 3 mld USD sui totali 18 mld USD oggetto della trattativa), ma non la Grecia (che si è sottoposta ad una ristrutturazione preventiva, con il supporto di BCE, UE e prevedibilmente FMI).


Ogni storia è diversa, ma con alcuni punti in comune: il sacrificio richiesto agli investitori; lo “swap” fra vecchio debito e nuovo debito ristrutturato, a valori nominali inferiori; l’apertura di contenziosi legali fra stato, investitori, banche.


Lo scenario diviene più complesso quando investitori professionali specializzati in “default”, come i c.d. “vulture hedge fund”, entrano in scena acquistando partite di vecchi “bond” che non sono stati consegnati in sede di “swap” dai vecchi possessori; questi acquisti avvengono a valori scontati (il vecchio debitore cerca di incassare “pochi, maledetti e subito”), con l’obiettivo di avviare negoziazioni per vedersi riconoscere dal debitore un valore il più alto possibile, sia tramite accordi diretti che azioni legali.  


Il contenzioso legale è la conseguenza della diversa legislazione che regola le vecchie emissioni di debito andate in “default”; facendo un esempio, l’Argentina ha emesso, in passato, una pluralità di debito pubblico regolato dalle leggi argentina, statunitense, inglese, avendo come controparti (investitori) soggetti diversi che hanno sottoscritto contratti con condizioni contrattuali diverse (interessi, durata, clausole di risoluzione anticipata per mancati pagamenti sul debito, o su altri debiti: la c.d. clausola “cross default”): per ogni emissione vi sono quindi contratti diversi, e se non si raggiunge un accordo complessivo (che nel caso argentino non si è raggiunto), i singoli investitori hanno la possibilità di agire legalmente per difendere i propri diritti di finanziatori. E’ quanto accaduto proprio nel caso dell’Argentina con riferimento ai “bond” che non sono stati convertiti in sede di “swap” del 2005 e del 2010, “bond” regolati da leggi USA ed inglese, e che sono stati successivamente acquistati da fondi specializzati; questi vecchi “bond” hanno speciali clausole, come la “RUFO” che prevede che un eventuale accordo separato fra Argentina e detentori di titoli originali “ante-default” “smonti” la struttura complessiva della ristrutturazione del debito argentino, col risultato che capitale ed interessi – stimati in oltre 30 miliardi di US$ -- diventerebbero immediatamente dovuti ed esigibili. Seppure la clausola RUFO sia venuta a scadere lo scorso dicembre 2014, ad oggi non c’è stato accordo fra le parti; non solo, nel 2014 l’Argentina ha sostituito il “trustee” (che era una banca USA) come agente pagatore con una banca locale argentina, presso la quale ha depositato 161 milioni di US$, disponibili per il pagamento ai “bondholder” che hanno in mano i “bond” emessi post-ristrutturazione del debito nel 2005 e nel 2010, a condizione che gli investitori trasferissero i titoli al nuovo “trustee” argentino. Da qui è nata una disputa legale, ancora in corso, avviata presso la corte USA, il cui giudice ha a suo tempo ritenuto illegale la decisione con cui la legge argentina ha consentito di trasferire la giurisdizione dei “bond” fuori degli USA (dove i “bond” erano stati “contrattualizzati”); lo stesso giudice USA ha sancito che per poter “passare ad incassare” i “bondholder” internazionali che non abbiano trasferito la giurisdizione dei loro “bond” in Argentina dovranno chiedere l’autorizzazione del giudice USA; senza tale autorizzazione, diverrebbero “complici” dell’Argentina, poiché consentono al governo di eludere la sentenza del giudice USA. 


La “matassa” legale, come si vede, è molto complessa, sia in questo caso che in tutti i casi ove vi siano emissioni di “bond” regolati da leggi straniere, e spesso di diversi paesi, con previsioni di arbitrati regolati da giurisdizioni internazionali.


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