domenica 21 settembre 2014

Ma quale patria, quale odio ancestrale. Intascato il bottino, si può tornare amici come prima.


“”Alle 12:37 di sabato 5 febbraio 1994 una bomba di mortaio sparata dalle colline colpisce in pieno la piazza del mercato nel cuore della vecchia Sarajevo. È un macello: muoiono sessantanove civili, oltre duecento sono feriti. Il mondo è scosso dalle immagini del sangue; i politici, per la prima volta, dicono basta. Karadzic nega ogni responsabilità, accusa i musulmani di aver sparato su se stessi per attirare la solidarietà internazionale. Più tardi, dirà che è stata la polizia segreta bosniaca a costruire la scena con dei morti presi in prestito dalla morgue dell’ospedale. Il diniego dà subito i suoi frutti. Nonostante in quelle settimane Sarajevo sia costantemente sotto il fuoco dell’artiglieria serba e i crateri freschi delle bombe da mortaio siano ovunque, l’Onu – determinata a evitare a ogni costo l’intervento della Nato – decide di aprire un’inchiesta. Si sa che i mortai, quando sparano sporadicamente, non sono armi precise. I colpi cadono assolutamente a caso, dunque è impossibile pensare che un singolo colpo abbia potuto colpire deliberatamente mirato sulla piazza del mercato. Ma egualmente, per quindici giorni senza sosta, il generale Michael Rose, capo delle truppe Onu in Bosnia, lavora con la commissione d’inchiesta per sviscerare ogni possibile pista alternativa. Osserva la giornalista Laura Silber del “Financial Times”: “Se ci fosse stata anche una briciola di evidenza che la strage del mercato era da addebitare ai bosniaci, il mondo l’avrebbe saputo”. Determinata a evitare un raid della Nato che irriterebbe i russi, Londra approfitta dell’inchiesta per intessere una frenetica trattativa e arrivare ad un cessate il fuoco concordato. La Nato scalpita, l’incompatibilità con l’Onu esplode apertamente.. Karadzic scende a più miti consigli, ma solo per intervento di Eltsin. Un anno e mezzo dopo, un’altra bomba di mortaio cade nel centro di Sarajevo e fa strage. È il 29 agosto del 1995. Per la prima volta, improvvisamente, i caschi blu giungono a conclusioni rapidissime sull’accertamento delle responsabilità. Dopo poche ore emettono il seguente comunicato: “Esaminati i risultati dell’inchiesta condotta dagli esperti militari, il comandante generale dell’Unprofor, generale Smith, ha concluso che, al di là di ogni ragionevole dubbio, la bomba di mortaio da 120 millimetri che ieri ha distrutto, tra morti e feriti, la vita di più di ceno cittadini di Sarajevo è stata lanciata dalle posizioni serbe”. La notte stessa i jet della Nato hanno dal comando Onu disco verde per bombardare le postazioni serbo-bosniache attorno alla città. È una svolta storica, per la prima volta l’Alleanza atlantica dispiega in Europa tutta la forza della sua deterrenza militare. In quelle ore, come d’incanto, Onu, Nato, Stati Uniti d’America, tutti escono dalla palude dei dubbi in cui per quattro annui si sono lambiccati davanti ai massacri. Di colpo, l’intervento militare esterno cessa di essere un tabù; persino Londra e Parigi, notoriamente, morbide con la Serbia, si dichiarano favorevoli agli attacchi missilistici americani. Addirittura Mosca, tradizionale alleata di Belgrado, dà all’operazione il suo silenzio-assenso. All’improvviso, come per una parola d’ordine che attraversa silenziosamente giornali, segreterie politiche e ministeri degli Esteri, la parola “Sarajevo” non evoca più conflitti planetari; bombardare la Bosnia serba non significa più terza guerra mondiale in vista, non vuol dire più l’orso russo alle porte, non comporta più il rischio di missili serbi sull’Italia o la paura di attentati. Persino il tremebondo inviato dell’Onu, Akashi, che per anni non ha avuto il coraggio di pronunciare per la capitale bosniaca nemmeno la parola “assedio”, diventa coraggioso e determinato come un leone. Ogni remora cade, e, dopo anni di sangue versato, il mondo scopre l’ovvietà: che la diplomazia senza deterrente è nulla e che nei Balcani conta solo la forza. Che cos’è accaduto? È accaduto che la guerra ha raggiunto da sola il suo limite di esaurimento fisiologico. Non è solo che il conflitto, coinvolgendo l’opinione pubblica americana alla vigilia delle presidenziali, ha smesso di essere un problema estero per diventare in fatto di politica interna. È che dopo quattro anni di razzie si è arrivati al fondo del barile, non è rimasto più niente da grattare. Banche di Stato, cambisti d’alto bordo, multinazionali del crimine, uffici studi delle grandi società, la mafia jugoslava e Cosa Nostra in Italia: in quei giorni anche le pietre sanno che nei Balcani non c’è più niente da rubare e che a quel punto la guerra può finire, per lasciare spazio a un altro business, quello della ricostruzione. Solamente a questo punto, e non prima, l’uso delle maniere forti è apparso alle grandi potenze una strada percorribile. È come dire che la guerra ha seguito bioritmi indipendenti dai nostri sdegni, da nostri missili e dalle nostre diplomazie, e che la pace di Dayton è arrivata solo al momento giusto. Essa ha avuto successo non perché ha bloccato la logica demenziale dei contendenti, ma perché – al contrario – l’ha aiutata a dispiegarsi meglio e a esaurirsi, velocizzando i combattimenti e gli scambi di popolazioni, cioè senza tenere in minimo conto, ancora una volta, i destini della gente. Il resto sono specchietti per le allodole. Nell’agosto del ’95 tutto cambia perché è Belgrado la prima a voler chiudere la partita. La voglia di chiudere in fretta vi si respira nell’aria. I giornali mettono il silenziatore a ogni protesta nazionalistica, riducono al minimo le notizie sui bombardamenti Nato e sulla rotta di Knin. Mentre i fratelli serbi delle Krajine arrivano a decine di migliaia, affranti, alle porte di Belgrado in cerca di un tetto e di un pezzo di pane, il capitano Arkan – il capo delle milizie paramilitari cantato come il dio Marte in persona – se ne sta nella sua villa miliardaria di Dedinje, nel quartiere dei vip belgradesi e della nomenclatura, a nuotare in piscina con la sua nuova, bellissima moglie, e a bere limonate. Non sta più sul campo della morte, a Glina o Gospic, dove non c’è più nulla da rapinare. Improvvisamente, dopo quattro anni di guerra feroce e trattative estenuanti, i confini tra Serbia e Croazia possono tornare senza problemi quelli del 1991. Che senso ha avuto tutto il sangue versato in nome della patria? Ma quale patria, quale odio ancestrale. Intascato il bottino, conclusi i trasferimenti di popolazioni, si può tornare amici come prima. Il caos è utile finché rende, poi può tornare l’ordine. E allora, abbiamo assistito solo a una mostruosa commedia? A una farsa, a una rappresentazione della guerra? Dietro ai tanti enigmi c’è stato davvero il nulla, solo il cinismo di un affare economico condiviso o tollerato dal mondo?””

Paolo Rumiz, Maschere per un massacro, pg. 176-177-178-179, 1996.

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